Giornate di lotta, d’amore e d’anarchia al Camping La Sapienza

venerdì 19 maggio 2023


Un tempo si sarebbe detto che “piantare le tende” all’università fosse un’iniziativa positiva, perché sintomo della voglia del giovane di vivere pienamente l’esperienza degli studi superiori. Oggi non è più così. La locuzione “piantare le tende” deve essere intesa in senso letterale. Da qualche settimana un po’ di bravi ragazzi pernottano in tende da campeggio installate sulle aiuole degli atenei per protestare contro il caro-affitti degli immobili destinati agli studenti fuorisede. Un modo originale per segnalare all’opinione pubblica e al mondo della politica l’esistenza di un problema. Obiettivamente, il mercato immobiliare nelle grandi città è schizzato alle stelle. Per un giovane, che deve essere mantenuto agli studi dalla propria famiglia, pagare una somma superiore ai 300 euro per un affitto mensile di un posto letto è molto complicato. Da qui la protesta. Giusto o sbagliato manifestare il proprio disagio? La risposta non è semplice. Si tratta di una questione che non può essere tagliata con l’accetta. Questi giovani reclamano un diritto allo studio, che non può essere annichilito dall’insostenibilità dei costi degli alloggi. Ciononostante, sbagliano a prendersela con i proprietari degli immobili per il caro-affitti. Si tratta di abitazioni private che soggiacciono alle regole del mercato. Se la domanda si espande è inevitabile che l’offerta sia più esosa. In un mondo libero, il profitto non è un peccato e neppure un reato. La questione verte sull’annoso problema delle mancate politiche per lo student housing che i Governi succedutisi negli ultimi decenni hanno mancato di attuare.

Se abbiamo ben interpretato i numeri snocciolati ieri l’altro dal ministro dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini, al question time alla Camera, sarebbero 7.500 gli alloggi creati per gli studenti fuorisede. Se si considera che, nell’anno accademico 2021/2022 gli iscritti alle università italiane sono stati 1.822.141, di cui 323.852 nuove immatricolazioni, a fronte di 370.758 laureati in uscita dai percorsi universitari (fonte: Portale dei dati dell’istruzione superiore), secondo le stime calcolate sul fabbisogno di posti letto, l’offerta strutturata per i fuorisede dovrebbe coprire almeno 130mila unità, allocabili in studentati e collegi. Ma la politica fa la politica e, visto che il nuovo Esecutivo non ha alcuna intenzione di farsi cogliere con il cerino accesso tra le mani, si affretta ad annunciare, per bocca del ministro competente, che sono in arrivo 400 milioni stanziati per gli alloggi e 52.500 posti letto da realizzare coi fondi Pnrr. Sarebbe comunque una bella toppa per tamponare una falla che c’è. Tuttavia, i rimedi possono depotenziare il fenomeno ma non ne elidono la causa. Anzi, le cause. Sul banco degli imputati non dovrebbero finirci i proprietari degli immobili privati che fanno profitti su un buco nero del nostro sistema educativo. Bisognerebbe cominciare a indagare la filosofia di fondo sulla quale sono stati costruiti, nei secoli, gli atenei. Il senso alto che la società ha da sempre riservato all’istruzione superiore ha fatto sì che le strutture universitarie sorgessero nel cuore delle grandi città. L’idea di portarle in periferia, dove gli spazi urbanistici sono di gran lunga più adatti alla realizzazione di campus in piena regola, dotati di infrastrutture e di alloggi non solo per i fuorisede ma per tutti gli iscritti, sull’esempio anglosassone, ha fatto fatica ad affermarsi.

Eppure, l’esperienza avrebbe dovuto insegnare alla politica che la sola strada percorribile per migliorare l’accessibilità allo studio universitario è la delocalizzazione delle sedi. L’allocazione nei centri cittadini ha generato un ulteriore problema. In alcune regioni, una pessima mobilità rende impossibile il pendolarismo agli studenti residenti in provincia o nelle aree metropolitane limitrofe ai luoghi delle sedi universitarie. Cosicché, essendo impraticabili gli spostamenti giornalieri, si viene classificati “fuorisede” anche abitando a 50/60 chilometri dall’università a cui si è iscritti. È il caso della Capitale. Il cattivo funzionamento dei trasporti pubblici obbliga gli universitari a pernottare a Roma a costi insostenibili. Quando però si parla di studenti, bisogna stare attenti alle generalizzazioni. Non per tutti valgono gli stessi problemi e vanno ricercate le medesime soluzioni. Sappiamo per esperienza che una parte di essi con la storia di dover necessariamente vivere in prossimità dei luoghi universitari ci marcia. Per un giovane la vita in periferia, o in provincia, non è stimolante come quella vissuta nelle grandi città. È comprensibile che sia più eccitante vivere le notti della movida metropolitana piuttosto che le serate in piazza in un remoto paese dell’entroterra. Vuoi mettere farsi uno Schnaps al Testaccio, invece di consumare la solita birretta al bar del paese? Se, dunque, è legittima la pretesa del giovane di cogliere l’occasione dell’iscrizione all’università per evadere dal proprio contesto di vita, ritenuto inadeguato e asfittico, non lo è altrettanto la pretesa che sia lo Stato a pagare per lui – o per lei – il prezzo della libertà dall’ambito socio-famigliare. C’è poi un’altra questione che andrebbe messa a nudo e che riguarda lo spostamento in numeri significativi di giovani dal Sud al Nord del Paese per compiere gli studi universitari. Le ragioni che muovono tale onda migratoria sono sostanzialmente due. La prima. Esiste un malvezzo, tipico del provincialismo borghese nel Sud Italia, di fare dell’invio dei figli a studiare al Nord uno status symbol.

È una eredità che la media borghesia meridionale ha ricevuto dalle classi agiate della vecchia aristocrazia e dell’alta borghesia, quella di spedire i propri pargoli a studiare al Nord. Principalmente a Milano, a Torino, a Bologna. Da quando, però, ai ricchi del Sud le università italiane non sono più bastate e hanno cominciato a inviare i figli all’estero, prevalentemente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, le classi di rincalzo del ceto medio produttivo sono andate all’assalto degli atenei del Nord, con l’Università meneghina Bocconi tra le mete più ambite. Ora, se l’arrivismo e l’ambizione sociale non sono comportamenti da punire, parimenti non meritano di essere messi economicamente in carico alla collettività. Salumai e riparatori d’automobili vogliono i figli bocconiani? Legittimo, ma se li paghino con le loro tasche e lascino in pace le nostre. La seconda. Tra le motivazioni del trasferimento al Nord per ragioni di studio c’è la questione della qualità dell’insegnamento. Si asserisce che le università settentrionali siano migliori di quelle al Sud. Si tratta di una verità scientificamente riscontrata o siamo al luogo comune? Delle due, l’una. In Campania sono operative sette università statali, con sedi sparse in tutto il territorio regionale e con 7.774 unità di personale docente e ricercatori; in Basilicata una università statale con 457 docenti; in Calabria tre università statali con 2.045 docenti; in Puglia cinque università statali con 3.982 docenti (fonte: ibidem). Se fanno tutte schifo per cui gli studenti, al pari dei malati, devono andare al Nord a curare la loro istruzione, a cosa serve tenere un esercito di incapaci a libro paga dello Stato?

Se non funzionano, le si chiuda. Se, al contrario, c’è tanta qualità nelle università del Mezzogiorno quanto ve ne è in quelle del Nord, allora l’emigrazione non si giustifica. E il fatto che gli studenti emigrati con le loro necessità abitative contribuiscano ad accrescere la domanda di alloggi al Settentrione e, di conseguenza, a fare lievitare l’offerta, non deve essere motivo di encomio, ma ragione di riprovazione se ciò si traduce in danno effettivo per chi, incalzato da necessità lavorative, è costretto a stare al Nord. Rivendicare un diritto è giusto, pretendere un privilegio non è cosa che l’Italia possa permettersi di questi tempi. Ragione per la quale raccomandiamo ai ragazzi temporaneamente attendati nei giardini universitari di passarsi una mano sulla coscienza e decidere chi essere, se studenti volenterosi degni di ogni aiuto o scrocconi che abusano delle tasche e della pazienza altrui.


di Cristofaro Sola