quanto pare, in Georgia, i me-
todi sovietici sono duri a mo-
rire. Nelle carceri della capitale Tbi-
lisi e di altre città (Batumi, Zugdidi
e Kutaisi) sono state trovate video-
camere introdotte segretamente. Lo
dichiara la portavoce del Ministero
dell’Interno, Nino Giorgobiani, in
seguito a un’inchiesta condotta nel
sistema carcerario. L’indagine era
partita alla fine dell’anno scorso do-
po che, a settembre, erano stati do-
cumentati abusi e torture sui car-
cerati. Lo scandalo, scoppiato alla
vigilia delle elezioni parlamentari,
aveva provocato le dimissioni im-
mediate dell’allora ministro dell’In-
terno. E, il mese successivo, l’effetto
si era fatto sentire sul voto: per la
prima volta dal 2003, il “Movimen-
to Nazionale Unito”, democratico,
filo-occidentale, costituito per vo-
lontà del presidente Mikhail Saa-
kashvili, è stato sconfitto. L’attuale
governo, guidato dal partito “Sogno
Georgiano” del miliardario Bidzina
Ivanishvili, sta ancora capitalizzan-
do quel successo e si fa forza della
nuova inquietante scoperta. Le vi-
deocamere abusive nelle carceri, se-
condo le organizzazioni locali per
i diritti umani, sarebbero state usate
dalle guardie per spiare e ricattare
i prigionieri. Ivanishvili ha colto
l’occasione per dare del “bugiardo”
al presidente. «C’è una differenza
fondamentale fra noi due – ha di-
chiarato, al forum di Davos, all’in-
A
tervistatore della Bbc – Il presidente
è un bugiardo di professione. Ha
costruito un regime totalitario e non
uno Stato democratico. Noi, dal-
l’altra parte, facciamo quel che pro-
mettiamo, non mentiremo». Scagli
la prima pietra, però, chi non ha
ipocrisie totalitarie. Perché Saaka-
shvili, sebbene non sia riuscito fino
in fondo a riformare la polizia e i
suoi metodi (ma almeno ci ha pro-
vato, in questi dieci anni), almeno
ha reso l’economia del suo Paese la
più libera di tutta l’area ex sovietica.
E anche il sistema politico che ha
messo in piedi, dopo la Rivoluzione
delle Rose, è quello considerato più
aperto e democratico. Ivanishvili
non lo ha sovvertito, ma presenta
l’inquietante propensione ad avvi-
cinarsi alla Russia di Putin. Lo di-
chiara apertamente, in tutte le in-
terviste. Non vuole interrompere il
percorso di avvicinamento all’Unio-
ne Europea, ma vuole reimpostare
i rapporti con il Cremlino su toni
più amichevoli. Per ora ha solo an-
nunciato di voler smantellare i mu-
sei sugli orrori dell’occupazione so-
vietica. Intende cancellare il
programma di trasformazione del
Museo di Stalin a Gori, tuttora
conservato nella sua versione ori-
ginale agiografica, come ai tempi
dell’Urss. Saakashvili voleva aggiun-
gervi una mostra permanente sui
gulag e i crimini sovietici. Ma il mi-
liardario Ivanishvili (che ai tempi
del “baffone” sarebbe certamente
finito in un gulag) non vuole irritare
Putin, né la sua politica della storia.
La seconda vittima sarà certamente
il più esplicito Museo dell’Occupa-
zione Sovietica, di fronte al Parla-
mento di Tbilisi, dove sono docu-
mentate, con dovizia di particolari,
tutte le persecuzioni e le ondate di
epurazioni in Georgia, dal 1921 al
1991.
Come è avvenuto nelle altre
repubbliche ex sovietiche (Russia
inclusa), la cancellazione della me-
moria storica può essere benissimo
la premessa per il ritorno a un si-
stema post-sovietico.
(
ste. ma.)
II
ESTERI
II
Raid israeliano: proprio quello che la Siria voleva
di
STEFANO MAGNI
n raid aereo israeliano in Siria.
Sarà vero? Come sempre,
quando l’aviazione con la stella di
Davide si muove, nessuno la vede,
ma tutti l’hanno vista. Era successo
così anche nel settembre del 2007.
Gli aerei avevano bombardato un
sito nucleare nel Nord della Siria.
Nessuno ne ha parlato il giorno do-
po. Sono passate almeno 48 ore pri-
ma che circolassero voci su quanto
era accaduto. Poi è diventata una
certezza. Adesso è già storia. Si dà
per scontato quell’episodio, mai am-
messo, né da Israele, né dalla stessa
Siria, lo si definisce il “raid del set-
tembre 2007” e tutti, nel Medio
Oriente, sanno a cosa ci si riferisca.
Il raid di cui si parla in questi due
giorni, con sempre maggior inten-
sità, sarebbe avvenuto nella notte
fra martedì e mercoledì scorsi. La
notizia è stata data per prima dai li-
banesi. Già dalla fine della scorsa
settimana le autorità di Beirut erano
preoccupate dalla crescente presen-
za, sui loro cieli, degli aerei israelia-
ni. Il martedì hanno contato almeno
tre ondate di jet a bassa quota. La
notizia, mercoledì sera, è stata ri-
lanciata ufficialmente da Damasco.
Il regime di Bashar al Assad denun-
cia il bombardamento di un centro
di ricerca militare “per l’autodifesa”
(
armi chimiche?) a Jamraya, ad
Ovest della capitale, non lontano
dal confine con il Libano. Sui media
internazionali, però, stava già cir-
colando un’altra versione dei fatti:
il raid ci sarebbe stato, ma contro
U
un convoglio di camion, che tra-
sportava missili agli Hezbollah.
Ufficiali statunitensi (rimasti ano-
nimi) hanno dichiarato al
New York
Times
che l’attacco è avvenuto re-
almente e che l’obiettivo fosse un
convoglio di camion carichi di mis-
sili anti-aerei Sa-17 siriani diretti
alle milizie Hezbollah. Le stesse fonti
rivelano che Israele abbia avvertito
Washington dell’attacco imminente
poco prima che i jet decollassero. I
ribelli siriani confermano questa tesi.
Un convoglio di camion stava per-
correndo una stradina di montagna,
parallela all’autostrada Damasco-
Beirut. Nei pressi del confine siro-
libanese i camion sono stati centrati
dai missili aria-terra. Non è dato sa-
pere cosa quei camion stessero tra-
sportando. Nessuna fonte riporta la
presenza di armi chimiche. La tesi
più diffusa parla degli Sa-17. Ma,
secondo altre fonti, il carico era co-
stituito da Scud-D, dunque missili
tattici terra-terra, sempre di fabbri-
cazione russa. E infine, una terza
ipotesi, sostiene che si trattasse di
missili anti-nave. In tutti e tre i casi,
la reazione israeliana sarebbe stata
pienamente prevedibile. Da quando
si è conclusa la Seconda Guerra Li-
banese (2006), i ministri della Difesa
di Gerusalemme che si sono succe-
duti avevano dichiarato che l’avreb-
bero fatto: se la Siria avesse fornito
a Hezbollah armi in grado di mu-
tare il rapporto di forze, dunque ar-
mi chimiche, missili terra-terra, an-
ti-nave o anti-aerei, Israele avrebbe
attaccato preventivamente.
Oltre che prevedibile, l’azione
era anche prevista. C’erano sintomi
inequivocabili di un aumento del-
l’attività militari ai confini meridio-
nali del Libano. Da sabato in poi,
l’esercito israeliano ha iniziato a di-
spiegare batterie di Iron Dome (mis-
sili anti-razzo e anti-missile a corto
raggio) attorno a Haifa, pronte a
intervenire, a protezione della po-
polazione, in caso di lanci di katyu-
sha da parte degli Hezbollah. Gli
aerei, appunto, hanno compiuto una
serie di voli di ricognizione sul Paese
dei Cedri, per monitorare da vicino
l’attività del nemico. Insomma, era
noto da giorni che qualcosa fosse
nell’aria. Martedì, dunque il giorno
stesso del presunto attacco, il capo
di stato maggiore dell’aviazione
israeliana, Amir Eshel, aveva parla-
to, in una conferenza stampa, di una
campagna pre-bellica”: «Questa
campagna è già in corso, 24 ore su
24, 7
giorni su 7, per 365 giorni
all’anno. Stiamo agendo per ridurre
le minacce più imminenti e creare
le condizioni migliori per vincere
una guerra, nel caso questa dovesse
scoppiare». Il raid, se c’è stato, sa-
rebbe stato, dunque, andrebbe visto
come un attacco di opportunità
contro una minaccia che si stava de-
lineando all’orizzonte.
Resta il fatto che il raid israelia-
no è tuttora una notizia non con-
fermata. Ma la catena di reazioni
pubbliche è impressionante e rapida.
I primi a reagire contro lo Stato
ebraico, subito dopo la Siria, sono
stati i russi, i produttori delle armi
che potrebbero essere state distrutte.
Il Cremlino ha dichiarato che il raid
israeliano è una grave violazione
della sovranità della Siria. L’Iran mi-
naccia la guerra. Il regime di Tehe-
ran considera un attacco alla Siria
come un’offesa al suo territorio. Alì
Akbar Velayati, consigliere dell’aya-
tollah Khamenei, aveva ribadito
questo principio anche la settimana
scorsa, affermando che il regime di
Damasco è «una componente fon-
damentale del fronte della resisten-
za». Ieri, il Ministero degli Esteri di
Teheran ha rilasciato un proclama
bellicoso in cui si afferma che il raid
aereo al confine siro-libanese pro-
vocherà «serie conseguenze per Tel
Aviv». La minaccia più grave arriva
dall’ambasciatore siriano in Libano,
Alì Abdul Karim Alì: «La Siria si ri-
serva il diritto di intraprendere azio-
ni di sorpresa per rispondere all’ag-
gressione degli aerei israeliani». I
siriani potrebbero attaccare sul Go-
lan, anche senza preavviso: i depositi
di munizioni e le batterie di missili
e di artiglieria sono già in posizione,
in gran numero. Certo è che, dal
1973,
Damasco non ha mai più tro-
vato il coraggio per attaccare diret-
tamente il suo vicino occidentale.
Merito della paura dell’atomica
israeliana, prima di tutto. E delle
sconfitte subite in tutte le guerre
arabo-israeliane. Dal 1973 ad oggi,
tutti i nemici arabi di Israele hanno
sempre cercato soluzioni alterna-
tive: l’appoggio alle guerriglie locali
in Libano e Palestina, prima di tut-
to. O hanno firmato trattati di pa-
ce (come l’Egitto e la Giordania)
con il vicino ebraico. La via del
confronto diretto non è mai più
stata tentata. Ma il mondo cambia
e da due anni c’è una circostanza
inedita: con lo scoppio della guerra
civile siriana, il regime di Damasco
inizia a pensare di essere sconfitto
e di non aver più nulla da perdere,
ma anzi tutto da guadagnare, a
esportare il conflitto contro Israele.
Ci guadagnerebbe in legittimità,
agli occhi dei nazionalisti arabi e
dei fondamentalisti islamici di tutto
il mondo. Recupererebbe un mini-
mo di simpatia nelle opinioni pub-
bliche occidentali. Si presenterebbe,
agli occhi del suo stesso popolo in
rivolta (i ribelli più organizzati,
non dimentichiamolo, sono inte-
gralisti islamici) come difensore
della patria araba dal “comune ne-
mico sionista”. Il raid israeliano,
insomma, era quel che Damasco
andava cercando da mesi.
Echi di Unione Sovietica
nella democratica Georgia
Tibet, condannato
chi riporta i suicidi
Nessuno lo vede,
ma tutti lo hanno visto:
l’aviazione israeliana
ha (forse) colpito la Siria
Damasco, in crisi per
la guerra civile, ha tutto
l’interesse a scatenare
la guerra con i “sionisti”
K
STALIN a Gori
ontinua la campagna cinese
contro le auto-immolazioni
dei tibetani. Dal 2009 a oggi al-
meno 100 tibetani si sono dati
fuoco. Ritengono di non avere più
nulla da perdere e di aver esaurito
ogni altra forma di protesta paci-
fica. Dopo il fallimento della rivol-
ta del 2008, per protestare contro
il regime cinese e per chiedere il ri-
torno del Dalai Lama in Tibet,
sempre più giovani, soprattutto
monaci, compiono la scelta estre-
ma di darsi fuoco in pubblico. La
Cina risponde con arresti, minacce
alle famiglie dei suicidi, programmi
di “rieducazione”, condanne al
carcere e pattuglie nelle strade per
prevenire altre torce umane. E ieri
è giunto il momento della prima
condanna a morte. Le autorità co-
muniste cinesi vogliono uccidere
chi si suicida? Non direttamente.
Ma chi “istiga” al suicidio di pro-
testa. Un monaco tibetano è stato
condannato a morte da una corte
cinese della provincia del Sichuan.
L’accusa è quella di aver istigato
otto persone ad autoimmolarsi.
Oltre a lui, il tribunale ha condan-
nato un altro tibetano - nipote del
primo - a 10 anni di prigione. Sui
due pesa l’accusa di “omicidio vo-
lontario”. Lorang Konchok, que-
sto il nome del monaco condan-
nato, è in carcere e potrebbe
salvarsi. La corte ha deciso di so-
spendere la sentenza per due anni.
C
La sua pena potrebbe tramutarsi
in un ergastolo. I suoi diritti, però,
sono stati “revocati” a vita. Morte
civile o morte fisica che sia, Lorang
Konchok è stato completamente
espulso dal resto della società ti-
betana. Qual è il motivo della con-
danna? Cosa si intende realmente
per “istigazione al suicidio”?
Avrebbe collaborato con il gover-
no tibetano in esilio a Dharamsala
e con giornalisti stranieri per dif-
fondere le notizie delle autoimmo-
lazioni nella sua terra. Questo, dal
punto di vista della legge cinese, è
già una violazione di un segreto di
Stato, punito con la morte.
Nonostante il gran numero di
tibetani che si sono già dati fuoco,
la reazione internazionale contro
la repressione cinese è minima, se
non nulla. Era bastata un’unica
autoimmolazione di un monaco
buddista, filmata nel 1963, nel
Vietnam del Sud, per indurre Ken-
nedy a intervenire con la mano
pesante e incoraggiare la caduta
del regime di Ngo Din Diem. In
Cina non è possibile intervenire
allo stesso modo, ovviamente.
Ma, a quanto pare, non è neppure
possibile protestare diplomatica-
mente, né minacciare ritorsioni
economiche. Le autoimmolazioni,
insomma, producono un effetto
concreto solo se i rapporti di forza
lo consentono.
GIORGIO BASTIANI
L’OPINIONE delle Libertà
VENERDÌ 1 FEBBRAIO 2013
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