di
PAMELA SCHIRRU
ahmoud Ahmadinejad è vo-
lato martedì al Cairo. Erano
34
anni, che un presidente iraniano
non metteva piede nella terra dei
faraoni. Una visita definita storica
che incornicia una nuova stagione
di rapporti bilaterali con l’Egitto di
Morsi. L’occasione per riallacciare
i legami interrotti oramai da tre de-
cenni è stata la conferenza per la
Cooperazione Islamica. Il presidente
iraniano è stato accolto con tutti
gli onori riservati ad un capo di Sta-
to dal suo omologo Mohamed
Morsi, tra baci, abbracci e passeg-
giata sul red carpet. «Voglio pro-
vare a costruire un percorso verso
la cooperazione con l’Egitto – ha
spiegato il leader iraniano alla
stampa – se Tehran e il Cairo guar-
dano nella stessa direzione sulle
questioni regionali e internazionali,
molte situazioni possono cambia-
re». Nella tre giorni di visita uffi-
ciale, i due leader dovranno affron-
tare questioni delicate. In cima alla
lista pende ancora una volta la crisi
siriana. Non è la prima volta che
Morsi e Ahmadinejad discutono
della questione siriana. Risale al-
l’agosto scorso il faccia a faccia tra
i due leader. A fare da cornice al lo-
ro incontro la capitale Tehran, in
occasione del summit dei Paesi non
Allineati. In quel frangente Morsi,
a sorpresa, sfidò il presidente ira-
M
niano filo-Assad con un’accorata
difesa della resistenza. L’incontro
di questi giorni al Cairo, oltre che
storico, dovrebbe segnare l’inizio
di un nuovo corso nella risoluzione
del conflitto siriano e di rinnovati
legami fra Iran sciita ed Egitto sun-
nita. A tal proposito, significativo
l’incontro con il gran imam sunnita
Ahmed Al Tayeb all’interno di Al
Azhar, la più antica e prestigiosa
istituzione religiosa sunnita. Non
sono mancati però malumori e
qualche protesta contro la presenza
del “nemico” iraniano in Egitto.
Preoccupazioni sono state manife-
state dal principale schieramento
salafita che ha guardato con sospet-
to la presenza del leader sciita nel-
l’Egitto sunnita. Momenti di ten-
sione si sono verificati dopo l’uscita
di Ahmadinejad dalla moschea
Hussein del Cairo. Un contestatore
ha tentato di lanciare una scarpa
contro il presidente iraniano. L’uo-
mo, un giovane siriano, protestava
contro il presidente iraniano per il
suo appoggio ad Assad. Le proteste
non hanno tuttavia ostacolato il
tour del presidente iraniano. Tehran
e il Cairo avevano interrotto ogni
rapporto diplomatico in seguito
all’accordo di pace tra Egitto e
Israele (1980). Ma anche alla luce
della visita di martedì, la distanza
tra i due Paesi è notevole. Da un la-
to, l’Egitto sunnita non può rinun-
ciare al sostegno finanziario degli
alleati arabi del Golfo e degli Stati
Uniti (che ogni anno versano 1,3
miliardi di dollari in aiuti econo-
mici). In mezzo vi è la crisi siriana
che necessita di una risoluzione im-
mediata, dove non venga contem-
plata l’azione militare esterna.
Dall’altra vi è un presidente uscen-
te, che tenta in ogni modo di non
rimanere isolato, non solo all’este-
ro, ama anche in casa. Non è un
caso che la storica visita in Egitto
sia avvenuta a meno di quattro me-
si dalle elezioni in Iran. E l’Egitto
non sarà l’unica tappa. Il presidente
iraniano ha già espresso la volontà
di recarsi, in futuro, a Gaza.
II
ESTERI
II
Ahmadinejad eMorsi
fratelli-coltelli dell’Islam
La guerra segreta
dei droni americani
Amer al Sabaileh: «Non chiamiamola Primavera»
i è conclusa a Roma la 58^ As-
semblea Generale dell’Ata (Atlan-
tic Treaty Association) organiz-
zata dal Comitato Atlantico
Italiano. Il principale interesse
dell’iniziativa è rivolto al Medio
Oriente. Sta ancora cambiando
tutto in quall’area del mondo.
Egitto e Iran, che non dialogava-
no da un trentennio, si stanno
riavvicinando. I Fratelli Musul-
mani fanno ancora temere una
degenerazione della rivoluzione
araba in nuovi regimi islamici. Il
conflitto israelo-palestinese fa ca-
polino anche nelle sale protette
del Nato Defense College, che
ospita l’Assemblea dell’Ata. Lo si
vede chiaramente nel secco scam-
bio di battute fra il giordano
Oraib al Rantawi (direttore del-
l’Al Quds Center for Political Stu-
dies) e il generale israeliano Dan-
ny Rothschild. Il primo accusa
Israele di essere all’origine di tutte
le tensioni. Il secondo sottolinea
che i problemi arabi sono gene-
rati dai loro stessi regimi. La pri-
mavera araba cambierà qualcosa?
Prima di tutto si deve: «Far in-
contrare i giovani delle due spon-
de del Mediterraneo - come spie-
ga il senatore Enrico La Loggia,
presidente del Comitato Atlantico
Italiano - Sono i giovani più bril-
lanti, che poi saranno le classi di-
rigenti del futuro, è fondamentale
per abbattere i pregiudizi e per-
mettere a ciascuno di far cono-
scere all’altro le proprie ragioni».
Uno di questi giovani brillanti
è Amer al Sabaileh, analista di re-
lazioni internazionali giordano
che parla perfettamente l’italiano.
Ospite frequente del nostro Paese,
dove si è laureato, resta spesso e
volentieri sconcertato dalla visio-
ne distorta che gli “esperti” no-
strani hanno del Medio Oriente,
di come abbiano improvvisamen-
te cambiato le loro “certezze” allo
scoppio della primavera araba e
di come si fidino ciecamente di
un falso senso di sicurezza chia-
mato “principio di stabilità”.
L’Opinione lo ha incontrato a
Roma, a margine della 58^ As-
semblea.
Quali sono i principali stereotipi
duri a morire sulla Primavera
Araba?
Lo stesso termine “primavera”
è ingannevole. La rivoluzione,
qui, è vista come un sogno realiz-
zato. Non è stato realizzato nulla,
finora. La ribellione nasce da una
miseria terribile, che c’è ancora.
Parlare di “primavere arabe” non
permette di comprendere né le
cause, né il processo politico tut-
tora in corso. Per questo bisogna
sempre studiare la realtà, anche
se può apparire molto meno at-
traente di quello che sogniamo.
La rivoluzione del 2011 sembra
essere scoppiata all’improvviso.
Ma da quanto tempo se ne per-
cepivano i sintomi?
Non è stata affatto una sor-
presa. Tutti i semi della rivoluzio-
ne erano già stati gettati nel 1967,
dopo la guerra persa contro Israe-
le. Nel corso dei decenni, molti
fattori hanno solo rallentato, non
impedito, lo scoppio della rivolu-
zione. I fattori principali sono in-
ternazionali: le reti di alleanze e
protezioni costruite dai leader
arabi al potere. I rapporti di par-
tnership non hanno permesso ai
governi occidentali di capire la
realtà nascosta dietro ai paraventi
di queste dittature, dietro al fa-
scino di re, emiri e presidenti. La
rivoluzione, dunque, è maturata
lentamente ed è giunta in ritardo.
Ma non ha ancora realizzato quel
modello di società a cui aspirava.
A cosa mirano i rivoluziona-
ri?
Realizzare una vita migliore.
In tutto il mondo arabo manca il
senso dello Stato, mancano i di-
ritti umani, non è rispettata la li-
bertà di espressione. Ma, soprat-
tutto: manca il rispetto per la
persona. Solo dando pieno valore
alla persona possiamo sperare di
rispettarci, tollerarci, accettare il
diverso, vivere meglio. Solo così
si può arrivare ad una società
pluralista, progressiva, che si
identifica in una nazione e non in
una famiglia di autocrati o in un
singolo dittatore.
Questi valori, però, sono molto
diversi da quelli dei Fratelli Mu-
sulmani, che hanno vinto le ele-
zioni sia in Tunisia che in Egit-
to…
I Fratelli Musulmani oggi ap-
paiono come i veri protagonisti
della rivoluzione. Ma solo perché
sono gli unici organizzati per
prendere il potere. E questo per-
ché i vecchi regimi dittatoriali si
sono sempre alleati a loro, in re-
altà. In Egitto, benché fossero
perseguitati, sono stati gli unici
che si sono potuti organizzare in
partito, mentre tutti gli altri erano
proibiti. Perché questo? Per com-
battere le forze progressiste e de-
mocratiche. Per i regimi arabi più
conservatori, i Fratelli Musulmani
erano l’unico argine popolare da
usare contro l’espansione del
nasserismo” (il nazionalismo pa-
narabo di Gamal Abdel Nasser,
primo presidente repubblicano
egiziano, ndr). Per questo i Fra-
telli Musulmani ora hanno il po-
tere: sono l’altra faccia del regi-
me, hanno la barba al posto della
divisa militare. Ma la ritengo solo
una fase transitoria. Prima o poi
il popolo si renderà conto che so-
no una nuova dittatura. E non
passerà molto tempo: basti vedere
che cosa sta succedendo in Egitto
già in questi mesi. L’età delle dit-
tature è finita. La paura non c’è
più. Anche la scusa del governo
islamico è scaduta. Chi vuole go-
vernare deve riflettere la vera re-
altà sociale araba e deve adottare
un’agenda economica solida, per
gestire un cambiamento.
Lei è giordano e la Giordania è
l’unico Paese, nella regione, in cui
non sta scoppiando la rivoluzio-
ne. E’ stabilità o calma apparen-
te?
Io sono sempre scettico sulla
definizione di “stabilità” usata
in Occidente. Nessuno Stato ara-
bo è stabile, per il semplice mo-
tivo che non ci sono degli Stati
veri e propri. Nessuno di essi
poggia su radici stabili, né sul
consenso popolare. La monar-
chia giordana ha tanti problemi
irrisolti e non ha cambiato il suo
sistema. Si limita a sfruttare a
suo vantaggio le crisi internazio-
nali: approfitta della guerra si-
riana e della crisi egiziana per
tessere più relazioni con i suoi
partner e consolidare il suo po-
tere interno. Ma quando queste
crisi saranno finite? Se la Siria,
come auspico, diventasse una ve-
ra democrazia? Se l’Egitto doves-
se stabilizzarsi? A quel punto, la
Giordania diverrebbe una realtà
anacronistica. Sarebbe il momen-
to della verità. La monarchia ver-
rebbe costretta a fare le riforme
o affrontare il suo destino.
STEFANO MAGNI
I Fratelli Musulmani
sono solo l’altra faccia
dei vecchi regimi:
barba invece di divisa
Il primo errore
è quello di vedere
la rivoluzione come
un sogno realizzato
n nuovo tassello si aggiunge
alla lunga Guerra contro il
terrorismo. Il Washington Post ha
rivelato, per la prima volta, l’esi-
stenza di una base segreta ameri-
cana in Arabia Saudita. Da lì partì
il raid con i droni che, nel settem-
bre del 2011, uccise Anwar al
Awlaki, il principale leader di Al
Qaeda nato negli Stati Uniti. Era
il principale ricercato nella “kill
list” stilata da Barack Obama. E
non è stato l’unica vittima della
campagna condotta, in silenzio e
nel massimo della segretezza, dagli
aerei senza pilota statunitensi. I
media americani, a quanto risulta
dalle ultime rivelazioni, sapevano
già dell’esistenza di quella base,
ma non ne avevano mai fatto cen-
no. La nuova rivelazione giunge
dopo che è trapelato un rapporto
del Dipartimento della Giustizia
sugli “omicidi mirati”.
Gli argomenti a favore della
campagna dei droni sono molto
solidi. Al Qaeda nella Penisola
Arabica costituisce una minaccia
diretta sia per gli Stati Uniti che
per la stessa Arabia Saudita. La
cellula di Al Awlaki, in particolar
modo, ha provato per almeno tre
volte in meno di due anni (fra il
2009
e il 2011) a provocare un
massacro fra i cittadini americani.
Il governo federale ha voluto
che questa notizia emergesse? Ano-
nimi alti funzionari della Cia
U
avrebbero espresso qualche riserva
e molte preoccupazioni. Troppe ri-
velazioni potrebbero compromet-
tere le operazioni contro Al Qaeda
nella Penisola Arabica e danneg-
giare le relazioni con l’Arabia Sau-
dita. Il nuovo dettaglio su questo
conflitto segreto andrà, inoltre, a
riattizzare il duro dibattito sugli
omicidi mirati. Secondo sia i liberal
(
vicini all’amministrazione Oba-
ma) che i libertari, si tratta di ese-
cuzioni extragiudiziali. Né più né
meno. Al Awlaki era cittadino sta-
tunitense. La sua uccisione ha crea-
to un precedente grave: si può con-
dannare a morte anche senza
processo? Altri tre statunitensi, fra
cui il figlio minorenne (16 anni)
del terrorista sono stati uccisi dai
droni. Si può condannare a morte
anche un minorenne senza proces-
so? Quando c’era Bush, con i suoi
rapimenti extralegali” dei sospetti
terroristi, furono versati fiumi di
inchiostro di protesta, vennero gi-
rati film e documentari di denun-
cia (come “Rendition” che ha frut-
tato un premio Oscar a Reese
Witherspoon) e il caso di Abu
Omar, catturato in Italia, ha dato
luogo ad uno dei processi più ecla-
tanti degli ultimi anni. Obama, i
terroristi, preferisce ammazzarli
sul posto. Ma non abbiamo anco-
ra visto alcun film da Oscar con
questa nuova pratica.
GIORGIO BASTIANI
L’OPINIONE delle Libertà
GIOVEDÌ 7 FEBBRAIO 2013
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