Pagina 7 - Opinione del 9-8-2012

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II
CULTURA
II
Lazhar, processo al politically correct canadese
di
DIMITRI BUFFA
iamo in Canada, paese noto
per la libertà di cui godono i
propri cittadini, ma meno noto
per le contraddizioni grottesche
del politically correct in cui si di-
batte il suo sistema scolastico.
Accade che un brutto giorno
una problematica insegnante delle
scuole medie decida di suicidarsi
impiccandosi nella classe dei pro-
pri allievi durante l’intervallo della
ricreazione.
Parte una poco nobile gara del-
la preside e dei genitori a nascon-
dere l’accaduto, ma uno o più al-
lievi hanno visto e subito inizia
anche una processione di genitori
a togliere i propri figli dalla scuola
che non sa come parare il colpo
ed evitare una possibile chiusura.
Dopo aver letto la notizia sul gior-
nale, Bachir Lazhar, un immigrato
algerino di 55 anni, si presenta
nella scuola per offrirsi come sup-
plente. Viene immediatamente as-
sunto per sostituire la maestra
scomparsa. Così si ritrova in una
scuola in crisi, mentre è costretto
contemporaneamente ad affron-
tare un dramma personale. Quello
di essere un rifugiato politico al-
gerino ancora in attesa di una ri-
sposta da parte del Canada.
Bachir impara a conoscere il
suo gruppo di bambini traumatiz-
zati ma attenti, tra i quali ci sono
Alice e Simon, due ragazzini sve-
gli, particolarmente turbati dalla
morte della loro insegnante. Men-
tre la classe ritorna lentamente al-
la normalità, nessuno nella scuola
è a conoscenza del passato dolo-
roso di Bachir; nessuno sospetta
che è a rischio di espulsione dal
paese in qualsiasi momento. I suoi
figli e la moglie sono morti in un
paese arabo dispotico come l’Al-
geria dopo un incendio doloso
appiccato per colpire lui che si è
presentato alle autorità canadesi
come profugo politico. La con-
traddizione di Lazhar è che men-
tre la sua professionalità, peraltro
improvvisata perché il suo vero
mestiere in patria era un altro, sta
aiutando la scuola a uscire dal
tunnel in cui la aveva spedita il
suicidio dell’insegnante, che poi si
scoprirà essere stata un’egoista
con problemi relazionali con uno
degli allievi minorenni, nessuno
invece aiuta lui nella domanda di
asilo. E alla fine il paradosso è che
i genitori lo costringeranno ad an-
darsene dalla scuola perché i figli,
un po’ bestie, lamentano troppo
impegno nello studio. Sin dal pri-
mo dettato in cui prende un pic-
colo brano di Balzac che i ragaz-
zini subito bollano come “francese
medievale”. Insomma l’immigrato
che aiuta i canadesi a riscoprire la
loro identità culturale e l’amore
per lo studio, minato dai metodi
poco ortodossi e burocratici della
scuola, viene cacciato con una sor-
ta di razzismo tarato sui difetti
stessi di una società apparente-
mente sin troppo tollerante. Del
film, il regista Philippe Falardeau,
che lo ha tratto da un’opera tea-
trale di Evelyne de la Chenelière
(che nel film interpreta la madre
della ragazzina traumatizzata) di-
ce questo: «Mi è piaciuto imme-
diatamente il soggetto dell’opera
e la sua intenzione. Mentre guar-
davo la sua messa in scena a tea-
S
tro, ho immediatamente immagi-
nato il film: ho visto la classe, i
bambini... il tocco di Daniel Brièr
e la sua direzione essenziale pro-
babilmente mi hanno aiutato a vi-
sualizzare il lavoro cinematogra-
fico. Il personaggio Alice è
tratteggiato leggermente, e quello
di Simon a malapena, era una sto-
ria tutta da inventare. Sapevo che
c’era spazio per la creazione. Mi
ha anche colpito il fatto che la tra-
gica storia di Bachir, la sua con-
dizione di immigrato, non fosse la
parte centrale della trama. Egli si
trova di fronte a qualcosa che è
molto radicato all’interno della
società in cui si è stabilito, ma
questo confronto potrebbe avve-
nire ovunque. La storia doveva
stare in piedi da sola, al di là del-
l’evento traumatico dell’esilio. Il
suo dramma influisce su ciò che
sta per accadere: lo rende uno
straniero che sta per sconvolgere
il nostro punto di vista sul mondo,
ma io non credo che sia questo il
vero soggetto del film. Durante la
rappresentazione teatrale ho pen-
sato: “Qui c’è un personaggio ric-
co”. Non è un personaggio inven-
tato giusto per farci chiedere quale
potrebbe essere la sua caratteristi-
ca e la sua funzione. Niente di tut-
to questo. Bachir ha una propria
storia alle spalle, la sua storia per-
sonale, prima che il film inizi».
Ciò che colpisce comunque, ol-
tre al coraggio di indirizzare lo
spettatore verso un prevedibile
“non lieto fine”, è l’analisi spie-
tata di una società apparentemen-
te ricca e libera come quella cana-
dese dove la gente affoga tra
pregiudizi razzisti inconfessabili e
una burocrazia implacabile del
politicamente corretto che rende
infelici sia chi la applica sia chi la
subisce. Spiega sempre il regista
nelle note di regia a cura delle Of-
ficine Ubu che lo distribuiranno
in Italia a partire dal 31 agosto:
«L’ingenuità del personaggio al-
gerino sorprende e fa ridere.
Quando si gioca sottilmente su un
divario culturale, c’è spesso un ric-
co potenziale per l’umorismo. Il
bidello e l’insegnante di ginnastica
hanno costantemente scambi di
battute che fanno ridere. Il bello
è che non sono battute. È sempli-
cemente che la vita è comica e
penso che dovremmo saperlo co-
gliere. Per me i film senza umori-
smo sono fantascienza». La pelli-
cola che è stata premiata nel 2012
al
Sundance film festival
e a quello
di Toronto del 2011 ha atteso co-
me tutti i film di qualità in Italia
circa un anno perché una distri-
buzione indipendente osasse por-
tarla in sala. Ora sappiamo che è
anche candidato all’Oscar come
miglior film straniero. Stranamen-
te snobbato dalla critica, viene
usato come riempitivo di fine ago-
sto all’insegna dell’ «io speriamo
che se la cava e fa un po’ di incas-
so nel popolo che va al cinema
per godersi l’aria condizionata».
Un’altra dimostrazione brillante
del perché nel nostro paese il ci-
nema viene ucciso soprattutto da-
gli esercenti delle catene delle sale
più importanti. Se in tv la cultura
va in onda dopo la mezzanotte al
cinema la relegano nella program-
mazione estiva. Piuttosto che ri-
schiare un flop al botteghino d’au-
tunno.
“Monsieur Lazhar”,
il film diretto
dal canadese Philippe
Falardeau, è stato
premiato nel 2012
al “Sundance film
festival”e a quello
di Toronto del 2011,
ma ha atteso come tutte
le pellicole di qualità
in Italia circa un anno
perché
una distribuzione
indipendente osasse
portarlo in sala.
Ora sappiamo
che è anche candidato
all’Oscar come miglior
film straniero.
Stranamente snobbato
dalla critica, viene usato
come riempitivo di fine
agosto.
Ciò che colpisce oltre
al coraggio
di indirizzare
lo spettatore verso
un prevedibile“non lieto
fine”, è l’analisi spietata
di una società
apparentemente ricca
e libera come
quella canadese
dove la gente affoga
tra pregiudizi razzisti
inconfessabili
e una burocrazia
implacabile
del politicamente
corretto che rende
infelice sia chi la applica
sia chi la subisce
L’OPINIONE delle Libertà
GIOVEDÌ 9 AGOSTO 2012
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