di
CLAUDIO ROMITI
n questo inizio di campagna elet-
torale scendono in campo i pa-
gliacci di ogni schieramento poli-
tico. Clown di un sistema che tassa
e spende ben oltre metà del reddito
nazionale pronti a giurare il taglio
o l’eliminazione di questa o quella
imposta.
Persino Monti, dopo aver por-
tato il carico tributario ad un li-
vello mai raggiunto prima, sta rac-
contando che è possibile invertire
la folle tendenza in atto. E se a de-
stra Berlusconi promette di elimi-
nare l’Imu sulla prima casa aumen-
tando le tasse sui giochi, le
sigarette e gli alcolici, a sinistra i
teorici dell’attuale welfare strac-
cione che costa un occhio della te-
sta come Bersani, Fassina e Ven-
dola propongono di ridurre le
imposte su chi lavora tartassando
i ricchi peggio del loro collega
d’Oltralpe Hollande. Ma nessuno
di questi personaggi da circo ha il
coraggio di rilevare che nel corso
degli ultimi 20 anni la mano pub-
blica ha raggiunto un tale livello
di costi e di intrusività che nessun
pannicello caldo, nessuna partita
di giro e nessun giochino delle tre
carte potrà risultare efficace.
Il declino di una democrazia
sempre più stritolata da un collet-
tivismo strisciante che distrugge la
libera iniziativa, premiando sempre
più chi non produce nulla, avrebbe
bisogno di ben altre risposte per
essere contrastato.
Secondo gli ultimi dati la pres-
sione fiscale media sulle imprese
in Italia è di oltre 20 punti supe-
riori a quella della Germania, oltre
30
rispetto a Stati uniti e Gran Bre-
tagna. Ebbene, senza una taglio
drastico di una spesa corrente che
ha oramai raggiunto gli 800 mi-
liardi di euro la “nuova” riparti-
I
zione delle imposte portata avanti
dal fronte delle sinistre potrà al
massimo alleggerire la produzione
di qualche risibile decimale. Ma
per ridurre la mostruosità di un
prelievo che sfiora il 70% non ba-
sta far piangere qualche presunto
riccone, come minaccia l’irrespon-
sabile demagogia di Vendola &
company.
Quando il 94% di questa enor-
me massa di risorse serve solo per
far funzionare la macchina statale,
riservando il resto delle briciole al-
la spesa per investimenti, risulta
più che evidente che qualunque
nuova entrata non può che servire
ad alimentare un sistema impazzi-
to. E sebbene al circo Barnum delle
elezioni vanno in scena gli illusio-
nisti di tutti i colori, se non si ab-
batte il soviet della spesa pubblica
siamo destinati a breve a raccoglie-
re cicoria nei campi.
di
MARCO RESPINTI
l secondo mandato presidenziale
di Barack Obama, che si ri-in-
sedierà ufficialmente il 21 gennaio,
inizia con un rimpasto di governo.
Tre sono gli avvicendamenti: John
F. Kerry andrà al Dipartimento di
Stato al posto di Hillary Clinton;
John O. Brennan salirà al vertice
della Cia in sostituzione del dimis-
sionario generale David Petraeus;
e Charles Timothy “Chuck” Hagel
capitanerà il ministero della Dife-
sa. Con la sola eccezione del Te-
soro (Timothy Geithner potrebbe
lasciarne presto la guida), il resto
rimane esattamente com’è dal gen-
naio 2009, compresi gabinetti
chiave quali la Giustizia affidata
a Eric Holder (campione dei “di-
ritti civili”), l’Educazione in mano
ad Arne Duncan (fiero sostenitore
del “matrimonio” omosessuale) e
la Salute guidata da Kathleen Si-
belius, sostenitrice granitica di
quella riforma sanitaria obamiana
che obbliga i datori di lavoro a pa-
gare ai dipendenti mutue com-
prensive anche dei metodi di con-
trollo delle nascite (contraccezione,
aborto, sterilizzazione).
La nomina di Kerry fu vocife-
rata subito dopo le elezioni del 6
novembre 2012; poi entrò in giocò
la candidatura dell’attuale amba-
sciatrice americana all’Onu, Susan
Rice, ma l’onda lunga dell’assas-
sinio dell’ambasciatore J. Christo-
pher Stevens a Bengazi l’11 set-
tembre mandò tutto a monte a
metà dicembre; e così alla fine
Kerry è tornato in gioco e in sella.
L’unica cosa certa da sempre è
stata la partenza di Hillary. In mo-
do che possa tornare a pensare, se
vuole, alla Casa Bianca, ricomin-
ciando da dove tutto s’interruppe
nella primavera del 2008 allorché
la matematica – e il favore dei capi
I
del Partito Democratico – la co-
strinsero a gettare la spugna pro-
prio nei confronti di Obama.
Ovviamente è assolutamente
prematuro dire se la Clinton cer-
cherà l’elezione presidenziale nel
2016,
ma se decidesse di farlo è
certo che l’essere stata per tempo
sciolta da incarichi di governo
l’aiuterà. Potrà infatti presentarsi
un poco più da “indipendente”,
sganciarsi alquanto dagli aspetti
più imbarazzanti della politica
obamiana e persino provare a ri-
ciclarsi come personaggio se non
esattamente nuovo almeno oppor-
tunamente decantato.
Con tutta probabilità, invece,
questi stessi motivi matureranno
dall’arrivo di Kerry l’effetto oppo-
sto: taglieranno cioè definitiva-
mente fuori l’ex front runner De-
mocratico da ogni velleità
presidenziale.
Il secondo nome di Kerry è da
tempo quello di “trombato”. Perse
nel 2004 contro George W. Bush
figlio con un numero di voti infe-
riore persino a quelli ottenuti nel
2008
dallo sconfitto (da Obama)
John McCain. Del resto la sua de-
bolezza politica maggiore è sempre
stata proprio la politica estera (di
cui invece da Segretario di Stato
dovrà cibarsi quotidianamente) e
il suo passato da figlio dei fiori pa-
cifista (e filocomunista, assieme al-
la nota attrice Jane fonda) non gli
ha mai giovato. Bilanceranno, pe-
rò, i suoi tentennamenti (sosten-
gono molti) i due “duri” che Oba-
ma ha voluto mettergli al fianco:
un Repubblicano piuttosto di de-
stra come Hagel alla Difesa e il ve-
terano dello spionaggio Brennan
alla CIA.
Il primo è infatti un veterano
decorato della Guerra del Vietnam
e il secondo è stato fino a oggi a
capo di quell’antiterrorismo che
tra l’altro ha eliminato Osama bin
Laden.
Ma non tutto è esattamente co-
me appare. Brennan, infatti, fino
a oggi senatore del Nebraska, è sì
un Repubblicano alquanto con-
servatore, ma appartiene graniti-
camente alla corrente “isolazioni-
sta”: quella “scuola di pensiero”,
cioè, contraria per principio
agl’impegni militari statunitensi
all’estero, sempre e comunque im-
pegnata a ridurre le spese militari
e costantemente favorevole al ri-
tiro unilaterale delle forze armate
da qualsiasi fronte di guerra. Ben-
ché poggi su fondamenti culturali
ben diversi, al lato pratico è cioè
una mentalità spesso indistingui-
bile dalle politiche invocate e pra-
ticate della Sinistra. E se i suoi ef-
fetti concreti dentro una
compagine di governo non meno
anche se (assai) diversamente con-
servatrice possono essere di un cer-
to tipo, dentro un contesto di po-
tere di sinistra essi finiscono per
essere ben diversi. Per di più Hagel
ce l’ha smaccatamente da sempre
con Israele e con quella che defi-
nisce la “lobby israeliana” negli
Stati Uniti.
Quanto a Brennan, nonostante
i delicati incarichi di sicurezza na-
zionale riscoperti, da anni ha fama
di essere un “amico” di Hamas e
di Hezbollah. Lo affermano organi
di stampa conservatori come per
esempio
Front Page Magazine
e
The Weekly Standard
,
da tempo
pure una testata che si autodefini-
sce «la nave ammiraglia della Si-
nistra» quale
The Nation
e sotto
sotto anche algidi specchi dei “soli
fatti” come
The Economist
.
Al tempo dell’Obama-bis, in-
somma, la politica interna statu-
nitense resterà la stessa sin qui co-
nosciuta. Quella estera sarà invece
anche peggio.
II
POLITICA
II
segue dalla prima
L’incognita crisi
sui piani dei partiti
(...)
In queste condizioni l’idea del presi-
dente del Consiglio di tagliare le ali estreme
degli schieramenti bipolari diventare una
pia illusione. Perché, con una situazione so-
ciale diventata incandescente, saranno pro-
prio le ali estreme a menare le danze della
politica italiana.
Già si parla, ad esempio, di una possibile
separazione della componente di Sel dallo
schieramento bersaniano e di una sua pos-
sibile convergenza con i giustizialisti rivo-
luzionari di Antonio Ingroia. E non è af-
fatto difficile ipotizzare che di fronte alla
entrata in vigore di quel redditometro in-
ventato dai burocrati dalla cultura paupe-
rista ma dai portafogli personali pieni, l’in-
tero Nord su cui grava il peso maggiore
della pressione fiscale, possa spingere la Le-
ga e lo stesso Pdl a compiere gesti clamorosi
di protesta e di rottura.
La crisi e la sua sottovalutazione da parte
di chi ragiona solo in termini politicisti, in
sostanza, rappresentano una incognita che
se dovesse scattare stravolgerebbe ogni ge-
nere di piano studiato a tavolino. E rende-
rebbe o obbligatoria, come una sorta di ul-
tima spiaggia, il ricorso alla grande coali-
zione o trasformerebbe le ali estreme in ci-
cloni diversi ma convergenti destinati a
mandare tutto in pezzi. Come nelle prima-
vere arabe che si sono presto rivelate delle
estate segnate da vampate di furia incon-
trollata ed incontrollabile.
Chi pensa alle liste, oggi, non si pone que-
sto problema. Ma presto o tardi lo dovrà
affrontare. E c’è il serio rischio che aven-
dolo ignorato non sappia farlo.
ARTURO DIACONALE
La sinistra parabola
di Giampaolo Galli
(...)
C’è un particolare non irrilevante: la
carrozza che porterà Giampaolo Galli in
Parlamento ha l’insegna del Pd, è guidata
da Pier Luigi Bersani e ha stretto una so-
lida alleanza con Nichi Vendola. In Cam-
pania, per far capire il clima, il capolista
si chiama Guglielmo Epifani, è stato se-
gretario generale della Cgil e ha sempre
detto l’esatto contrario di quel che ha so-
stenuto sin qui Galli.
Adesso Bersani farebbe bene a spiegarci,
se ci riesce, chi tra Epifani e Galli ha cam-
biato idea e chi, tra Cgil e Confindustria,
suggerisce la linea al Pd. L’Italia Giusta
merita di saperlo.
SIMONE BRESSAN
Il grande rimpasto di Obama
per il suo secondomandato
Il Circo Barnum
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VENERDÌ 11 GENNAIO 2013
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