Page 7 - Opinione del 11-10-2012

II
ESTERI
II
La transizione tunisina,unpantano senzadirezione
di
ILARIA GUIDANTONI
a Tunisia è in mezzo al guado e
la transizione rischia di diven-
tare l’anticamera dell’anarchia o di
una nuova possibile dittatura.
L’espressione è forte ed entrambe le
possibilità esistono, dividendosi il
terreno con la speranza di una tran-
sizione reale quale cammino evolu-
tivo. Prima di addentrarci nello sce-
nario è utile una qualche
precisazione. Delle rivoluzioni in ge-
nerale si è scritto molto e sulla rivo-
luzione tunisina ho letto numerosi
testi, tunisini in prevalenza; franco-
tunisini, qualche testo francese e or-
mai il noto saggio del marocchino
Tahar Ben Jelloun. Non solo, della
cosiddetta rivoluzione ho scritto io
stessa un’istant book, che data 21
gennaio 2011 – appena una setti-
mana dopo la caduta di Ben Ali –
I
giorni del gelsomino
(
P&I Edizioni)
e un romanzo verità
Tunisi, taxi di
sola andata
(
No Reply Editore),
uscito il 21 marzo scorso che si spo-
sta nel periodo post rivoluzionario,
serrato tra l’eco della rivolta, entu-
siasmi, paure e soprattutto l’attesa
per le prime elezioni libere, del 23
ottobre 2011. Le rivoluzioni scal-
dano il cuore, presentano scenari
netti, molto meno le transizioni, che
offrono orizzonti vischiosi nei quali
si rischia di essere smentiti il giorno
dopo. Non è un caso dunque che
anche in Tunisia non esistono testi
sul tema.
La transition tunisienne
di
Kmar Bendana, l’unico con un titolo
programmatico che mi è capitato di
scorgere negli scaffali delle librerie
di Tunisi, cercando anche su siti e
blog specializzati, è fermo al gennaio
2012.
Sostanzialmente parla di ri-
voluzione e post-rivoluzione. A mio
parere la transizione inizia, invece,
con il governo provvisorio entrato
in carica lo scorso novembre per un
anno. E quando scade il termine?
Teoricamente con le prossime ele-
zioni, slittate a marzo 2013 e che
probabilmente saranno rinviate al
2014.
Con il primo governo ordi-
nario, in carica per quattro anni e
la nuova Costituzione – ancora resta
da fissare in modo chiaro se si trat-
terà di una Repubblica parlamen-
tare o presidenziale – potremmo
parlare, a mio parere di una prima
fase compiuta, almeno in termini
formali. Per costruire una democra-
zia, secondo i pareri diffusi, che ho
raccolto in funzione di un reportage
sul tema della transizione appunto
al quale sto lavorando, l’estate scor-
sa: occorrono dai 4/5 anni ai 10. E’
chiaro che più che ai giornalisti e
agli intellettuali, parlare di transi-
zione interessa agli storici, ma an-
cora non è il loro tempo. Il mio in-
teresse è invece capire cosa accade
in una transizione, quale può essere
se esiste un’anatomia della transi-
zione perché una cosa è certa: in nu-
ce si formano nel suo ventre i partiti
e la società del domani. Per questo
è molto importante la gestione di
questo periodo. Infine, il termine
transizione indica un periodo che
vive tra la tensione del passato e
quella futura di una meta da rag-
giungere. Quale? Non è detto che
tutta la società tunisina sia concorde
nello stabilire le priorità. Analizzan-
do la rivolta però si evidenziano le
rivendicazioni di partenza: libertà
d’espressione; dignità, ovvero acces-
sibilità equa al mondo del lavoro e
corretta sindacalizzazione scevra dal
L
rapporto dominante stato-partito
unico; e giustizia con una distinzione
tra potere legislativo, esecutivo e po-
tere giudiziario. È da costruire uno
stato moderno in cui ci sia la sepa-
razione tra politica ed amministra-
zione in primis; politica e religione,
dall’altra parte; multipartitismo e
superamento della censura in termi-
ni culturali oltre che a norma di leg-
ge. Considerato il lavoro titanico da
svolgere, l’impreparazione politica
generalizzata e lo stato di crisi eco-
nomica, qualcuno ventila l’ipotesi
che la transizione sia solo il passag-
gio verso un’altra rivoluzione. Quel-
la vera, che ancora non c’è stata.
Forse è un augurio. Il rimedio po-
trebbe infatti essere peggiore del ma-
le: niente vittime, il ritorno alla si-
curezza e una nuova dittatura, poco
importa il colore. Qui si apre una
breccia che ci riporta all’inizio del
discorso. È stata una vera rivoluzio-
ne quella tunisina? È stata certamen-
te una rivolta, una rottura con il
passato e una cesura ma, secondo il
parere di molti, non una rivoluzione
per varie ragioni che spiegano la
grande confusione della transizione.
In arabo non esiste il termine rivo-
luzione: thaura indica la rivolta e
qui cominciano gli equivoci nella
nostra corrente interpretazione. Una
rivoluzione presuppone un cambio
di paradigma di copernicana me-
Cosa accade durante
una transizione
e qual è la sua anatomia?
Una cosa è certa:
in nuce si formano
nel suo ventre
i partiti e la società
del domani. Per questo
è molto importante
la gestione di questo
periodo. È stata
una vera rivoluzione
quella tunisina?
È stata certamente
una rivolta, una rottura
con il passato
e una cesura nonostante,
per molti analisti,
non possa essere
considerata
una reale rivoluzione
per varie ragioni.
Ecco spiegata
la grande confusione
su cosa è avvenuto
dopo la deposizione
del vecchio regime
moria; una preparazione nel tempo;
un’ideologia sottostante; un leader.
In Tunisia non c’è stato nulla di tut-
to questo. Il moto giovanile, popo-
lare, in gran parte spontaneo al gri-
do di libertà e dignità, molto
suggestivo – non ci sono leader,
ognuno di noi può esserlo, gridava-
no i cortei – apre il rischio voragine.
In Tunisia ad oggi la transizione non
ha elaborato modelli: gli intellettuali
sono individualisti, cavalcano le idee
rivoluzionarie ma in gran parte sono
scollati dalla quotidianità; l’oppo-
sizione politica è frammentata e
frammentaria, lontana dal territorio
e dal popolo. Non esiste una guida
forte. Prova ne è che si sta cercando
consensi con ‘un terzo polo’, per
usare il linguaggio di casa nostra
con un vecchio politico della scuola
di Bourghiba, Caïd el-Sebsi, con il
suo Nida Tunis (La chiamata della
Tunisia), grande conoscitore della
macchina dello stato, laico e non
ideologo. Potrebbe essere la chiave
per riunire i cosiddetti ‘moderati’ –
termine che aborro quanto utile –
mediando il richiamo alla tradizione
e ad una presunta identità tunisina
(
da sempre crocevia di popoli), in-
carnato dal partito al governo, En-
nahda (Rinascita) con la spinta laica
della ‘sinistra’ e, in alcuni casi, lai-
cista (o laicard, come direbbero i
francesi). A dire il vero l’istanza pro-
gressista più autentica è incarnata
dal sindacato Ugtt (Union Générale
Travailleurs Tunisiens) che però fa
i conti con un popolo stanca di mal-
versazioni, che vive una fase acuta
di rivendicazione aggressiva. Il qua-
dro è fluido e complesso, rendendo
difficile qualsiasi previsione. Ci sono
molti fattori da considerare e a mio
parere una certezza: la rivolta ha di-
mostrato che il popolo è in grado
di ribellarsi ed è questa l’eredità più
grande, la convinzione che nessun
dittatore è eterno. La libertà è una
conquista graduale e ha un prezzo,
spesso molto salato; almeno dal
punto di vista intellettuale, sperando
che non ci sia una degenerazione
nella violenza, lo scontro è prova
del tentativo di esprimere le proprie
idee, rispetto ad anni nei quali non
era nemmeno concepibile provarci.
Dal punto di vista culturale si regi-
stra la riscoperta della cultura dopo
vent’anni di abbrutimento, lenta cer-
to, però con una rinnovata atten-
zione alla Tunisia da parte dei suoi
cittadini ed è un fatto importante.
Nelle arti plastiche c’è stato un salto
di qualità, così come nella produ-
zione di generi nuovi quali il fumet-
to d’autore e la satira, completamen-
te dimenticata. Certo la spinta
iniziale non si è ancora evoluta, è
ferma alla provocazione e all’istanza
rivoluzionaria. Solo il tempo ci dirà
se si è trattato i un semplice risveglio
o di una rinascita. Molto più com-
plessa l’analisi del rigurgito religioso
che io leggo soprattutto in termini
identitari e tradizionali, dopo una
dittatura che ha fatto della laicità la
propria bandiera, anche se in Euro-
pa è l’elemento che emerge maggior-
mente. Infine sarebbe necessario
comprendere meglio il ruolo occulto
dell’Arabia Saudita e soprattutto del
Qatar che, a mio sommesso avviso,
utilizzano la dimensione religiosa
per garantire un’altra confessione:
quella che risponde al dio petrolio.
Gli Stati Uniti stanno a guardare?
E l’Europa che ruolo vuole giocare
nel Mediterraneo?
L’OPINIONE delle Libertà
GIOVEDÌ 11 OTTOBRE 2012
7