Page 7 - Opinione del 14-10-2012

sua scrittura è scorrevole, intelli-
gente, intensa, che sembra quasi
di attraversarla in volo, magari
planando tra “cosmicomiche” e
città invisibili”, così da rasentare
il sentiero dei nidi di ragno” o li-
brarsi sulla “giornata di uno scru-
tatore” e finire tra “i destini incro-
ciati” per scoprire “i nostri
antenati”. La lettura di Calvino è
un respiro a pieni polmoni, un
modo per ossigenare il cervello,
per dare ampio spazio all’imma-
ginazione, al sogno, allo sguardo
lungo, alla mente aperta. Se fosse
un elemento, Calvino sarebbe
l’Aria, cioè la forza vitale. Carlo
Emilio Gadda è il linguaggio, l’uo-
mo e il suo contatto con i ciottoli
della strada, con la vita onesta e
disonesta, con l’esperienza visibile,
con il dolore, il delitto, la paura,
l’amore. La sua opera più cono-
sciuta e apprezzata è il romanzo
intitolato
Quer pasticciaccio brut-
to de via Merulana
,
del 1957, da
cui Pietro Germi trasse anche la
sceneggiatura del film
Un male-
detto imbroglio
.
Insomma, la scrit-
tura di Gadda rappresenta l’inda-
gine della parola, l’uso del gergo,
il groviglio linguistico, l’intreccio
narrativo, l’imbroglio di frasi da
sciogliere come si scioglie il “caso”
di un libro giallo. L’elemento di
Gadda è la Terra, cioè la sua scrit-
tura è fertile e creativa, capace di
essere sperimentale, nutriente e na-
turale, anche quando appare ri-
cercata.
LA “CORDA PAZZA”
DEL NOVECENTO
«
Abbiamo tutti come tre corde
d’orologio in testa. La seria, la ci-
vile, la pazza. Soprattutto, doven-
do vivere in società, ci serve la ci-
vile; per cui sta qua, in mezzo alla
fronte. Ci mangeremmo tutti, si-
gnora mia, l’un l’altro, come tanti
cani arrabbiati. Non si può... Ma
può venire il momento che le ac-
que s’intorbidano. E allora... allo-
ra io cerco, prima, di girare qua
la corda seria, per chiarire, rimet-
tere le cose a posto, dare le mie
ragioni, dire quattro e quattr’otto,
senza tante storie, quello che devo.
Che se poi non mi riesce in nessun
modo, sferro, signora, la corda
pazza, perdo la vista degli occhi e
non so più quello che faccio!». E’
una spiegazione fulminante che ci
viene dal teatro. E’ quanto si legge
in una battuta tratta dalla com-
media
Il berretto a sonagli
di Lui-
gi Pirandello. Infatti, la “corda
pazza” è quella senza ipocrisie,
senza maschere, l’attimo di verità,
di sincerità, di follia. Per questo
motivo, lo scrittore italiano che,
con la sua opera letteraria e arti-
stica, forse meglio di chiunque al-
tro, ha rappresentato e messo in
scena il Novecento è, in realtà, un
uomo rimasto agganciato all’Ot-
tocento, cioè Luigi Pirandello. E
il tema della “corda pazza” sarà
ripreso molto più tardi anche da
Leonardo Sciascia proprio per de-
scrivere e far comprendere al me-
glio che cosa siano il nostro Paese,
il Novecento e la Sicilia. Nella let-
teratura pirandelliana, infatti,
emergono con chiarezza le con-
traddizioni del secolo scorso, la
modernità, la contemporaneità, il
peso dei condizionamenti esterni
che gravano sulle persone in ma-
niera oppressiva, la cappa di
piombo della repressione ambien-
tale che conduce il singolo alla fu-
ga dall’ingranaggio del mondo
reale o al rifiuto di un sistema non
più sopportabile e che conduce al-
la follia come ultima, estenuante
difesa. Il teatro nel teatro, le ma-
schere degli individui, l’umorismo,
il monologo interiore, la verità co-
me una corda tesa che a pizzicarla
si rischia di passare per pazzi.
Questo è il Novecento. Questo è
Pirandello. Il tutto descritto come
all’interno di un processo domi-
nato da un giudice invisibile, in-
teriore, venuto ad alimentare un
conflitto tra accusa e difesa che si
può giocare soltanto in un tribu-
nale immaginario, in un testo tea-
trale o in una novella. Ma l’uscita
dal conflitto necessita soluzioni
estreme, come quella di chiedere
la patente di iettatore pur di so-
pravvivere a una certa stupidità
della burocrazia o alle stolte eti-
chette di una società in cui l’indi-
viduo oppresso e schiacciato si ri-
trova ad avere, allo stesso tempo,
uno nessuno e centomila” perso-
nalità diverse. E proprio la fuga
dalla realtà, risolta con una qual-
che forma di pazzia, si ritrova an-
che nei versi di alcuni poeti che
hanno fatto la letteratura italiana
del Novecento. Mi riferisco ad Al-
do Palazzeschi e a Dino Campana.
Il primo è un clown della scrittura,
con i suoi “lazzi, frizzi, girigogoli
e ghiribizzi”. Uno poeta dentro il
Novecento che mette da parte
qualunque malinconia e si diverte
a indossare la sua maschera per
meglio deridere la sua condizione
e i suoi condizionamenti. Palazze-
schi, infatti, si prende gioco del si-
stema vestendosi da pagliaccio, da
funambolo, da circense della pa-
rola, da equilibrista in cammino
sul filo dell’ironia, dello scherzo,
dello scherno. Insomma, Palazze-
schi è un poeta che, per quello che
scrive e per come lo scrive, sembra
aver trovato il suo baricentro, cioè
la sua fuga dal sistema, in quello
che lui stesso definisce l’anti-do-
lore, lo sberleffo, l’uomo di fumo,
Il Codice di Perelà o quando toglie
qualsiasi aurea alla figura del poe-
ta definendosi con le seguenti te-
stuali parole: «Io metto una lente
davanti al mio cuore per farlo ve-
dere alla gente. Chi sono? Il sal-
timbanco dell’anima mia». Anche
Dino Campana incontra la pazzia,
la pazzia del Novecento, ma è per
lui un approdo quasi tragico, si-
curamente drammatico, tormen-
tato, maledetto. La fuga dalla re-
altà conduce Campana verso una
poesia che diventa tutto, totaliz-
zante, che racchiude l’intera sua
esistenza, in stretta sintonia con
la vita, trasformando la poesia nel
fine stesso della sua vita. I Canti
Orfici raccolgono, infatti, un’aspi-
razione universale, transnazionale,
senza limiti. Campana è il nostro
Rimbaud, ha l’ebbrezza visionaria
di chi ha imboccato la strada di
una ricerca senza fine. E si perde.
II
CULTURA
II
L’OPINIONE delle Libertà
DOMENICA 14 OTTOBRE 2012
7