di
STEFANO MAGNI
ronaca di una resa annunciata.
Ieri l’ambasciatrice americana
alle Nazioni Unite, Susan Rice, si è
ritirata dalla competizione per su-
bentrare a Hillary Clinton alla se-
greteria di Stato. In una lunga e ad-
dolorata lettera aperta, pubblicata
sul Washington Post, l’ambasciatrice
ha spiegato che: «Quando è diven-
tato chiaro che la mia potenziale
candidatura avrebbe dato inizio ad
una lunga guerra fra partiti, ho con-
cluso che sarebbe stato un errore
far continuare questo dibattito, di-
straendo tutti dalle priorità nazio-
nali: creare posti di lavoro, far cre-
scere l’economia, affrontare il
deficit, riformare le leggi sull’immi-
grazione e proteggere la nostra si-
curezza nazionale». Il dibattito fa-
zioso di cui la Rice parla, però,
riguarda un tema veramente scot-
tante di sicurezza nazionale: come
è stato possibile che un ambascia-
tore statunitense sia stato ucciso in
Libia? E perché la stessa Susan Rice,
nelle sue prime dichiarazioni pub-
bliche, ha negato che si trattasse di
un atto di terrorismo? È stata per
prima la Rice a parlare di un “moto
spontaneo” di protesta contro un
oscuro video su YouTube, poi “de-
generato” in modo “imprevedibile”
fino alla morte dell’ambasciatore
Stevens. Adesso, però, l’ambascia-
trice preferisce scaricare la colpa
C
sulle agenzie di intelligence e lascia
intendere di essere stata mandata
allo sbaraglio dalla Casa Bianca:
«Lo scorso 16 settembre, quando
la segretaria di Stato Hillary Clinton
non era disponibile dopo una set-
timana intensa, la Casa Bianca ha
chiesto a me di comparire in cinque
diversi talk shows per discutere di
diversi argomenti di politica estera:
le proteste contro le nostre sedi di-
plomatiche, l’attacco di Bengasi e
il programma nucleare iraniano –
scrive la Rice nella sua lettera aperta
– Quando ho parlato di Bengasi,
mi sono basata interamente su do-
cumenti non classificati dell’intelli-
gence, che comprendevano le loro
più precise conclusioni di allora».
La versione dell’ambasciatrice ame-
ricana all’Onu non coincide affatto
con la testimonianza di David Pe-
traeus (ex direttore della Cia, recen-
temente dimissionario) che, al con-
trario, ritiene che l’intelligence fosse
perfettamente al corrente della na-
tura terroristica dell’attacco di Ben-
gasi, almeno sin dal 12 settembre
(4 giorni prime le prime dichiara-
zioni televisive di Susan Rice). Que-
sta è quella che l’ambasciatrice de-
finisce “lunga guerra fra partiti”?
Diciamo, piuttosto, che è un tenta-
tivo di far luce su uno dei peggiori
scandali della politica estera statu-
nitense. I cui contorni, per altro, so-
no ancora totalmente oscuri.
La Rice, però, potrebbe essere
stata silurata dai Democratici.
Un’opinionista liberal, come Dana
Milbank (Washington Post), già
scriveva nei giorni scorsi che l’am-
basciatrice fosse «mal equipaggiata
per arrivare al vertice della diplo-
mazia nazionali, per ragioni che
esulano dalla Libia». Un carattere
brusco, mancanza di autorità, qual-
che gaffe del passato sono stati tutti
citati dalla stampa americana. Se-
condo fonti vicine alla Casa Bianca,
Hillary Clinton preferisce decisa-
mente John Kerry quale suo suc-
cessore. E sarà lui, adesso, con tutta
probabilità, a guidare la politica
estera americana.
II
ESTERI
II
SusanRice getta la spugna
Chi succederà allaClinton?
L’Egitto vota
sul suo futuro
K
Susan RICE
Le isole della pesca, contese fra Cina e Giappone
iamo di nuovo alle soglie di
una nuova guerra cino giappo-
nese, anzi di una strana triango-
lazione tra le “due Cine”, la Re-
pubblica Popolare Cinese (la Cina
continentale), la Repubblica di Ci-
na (Taiwan) ed il Giappone, anzi
poiché Cina e Taiwan non sono
alleate di fronte ad un potenziale
conflitto che vede l’Isola di Taiwan
grande una volta e mezza la Sicilia
contemporaneamente in armi con-
tro Pechino e Tokio, a loro volta
in guerra tra loro? E tutto questo
per due piccolissime isole in mezzo
al mare attualmente disabitate?
Fortunatamente, almeno pero-
ra, si tratta solo di una disputa di
sovranità, sia pure motivata da
notevoli interessi economici per
quella zona di mare dove più at-
tori reclamano interessi esclusivi,
che si auspica possa venire risolta
con un approccio diplomatico pa-
cifico.
Di cosa si tratta esattamente?
Facile ed al tempo difficile spie-
garlo perché come tutte le dispute
internazionali di questo tipo i vari
aspetti sono contorti ed ingarbu-
gliati. Diciamo subito che l’ogget-
to del contendere sono formal-
mente due “cime” che emergono
da montagne sommerse, due pic-
coli “marginali” isole di circa 2
chilometri quadrati di superficie
che hanno due differenti nomi,
quello originario cinese di Diaoyu-
tai, che in lingua cinese significa
“Piattaforma per la pesca” e quel-
lo giapponese di Senkaku. Già
perché questi isolotti furono sco-
S
perti ed esplorati da cinesi nel
1403 sotto la dinastia Ming
(1368-1644) e successivamente
sfruttate dai pescatori taiwanesi
come appoggio alle attività di pe-
sca; l’impero cinese se ne servì in-
vece come postazioni lungo la rot-
ta verso il Regno Ryukyu
(l’attuale Okinawa) tanto che alla
fine vennero incorporate all’inter-
no del sistema difensivo costiero
dell’Impero Ming. Ufficialmente
queste isole sono state sotto la giu-
risdizione cinese con continuità
dal 1644 al 1912.
Perché ufficialmente? In realtà
si tratta di due “scogli” in mezzo
al mare, comunque un appoggio
e un riferimento, in particolare per
la pesca, nel passato, prive di reale
importanza. Comunque il Giap-
pone le acquisì unilateralmente al
proprio territorio, annettendole
con un atto segreto del 14 gennaio
1895 nel corso della guerra cino
giapponese svoltasi dall’agosto
1894 all’aprile 1895. A questo at-
to protocollato come “informazio-
ne riservata” e, contrariamente alle
convenzioni internazionali, mai re-
so pubblico si richiama oggi, dopo
che in quell’area sembrano essere
state individuate interessanti ri-
sorse, il governo giapponese asse-
rendo che «Dal 1885 in avanti, so-
no state portate avanti
ripetutamente delle indagini in lo-
co che confermavano che le isole
fossero disabitate e che non vi fos-
sero segni di presenza dell’Impero
Qing. Fu quindi presa la decisione
a livello ministeriale, il 14 gennaio
1895, di annettere formalmente le
isole».
Si ribatte da parte cinese che
sempre dai vecchi documenti di
archivio di fonte giapponese risul-
ta che «il governo giapponese del
tempo fosse al corrente della so-
vranità cinese sulle isole nel 1885»
e che anzi, nell’ottobre del 1885,
in seguito alla prima rilevazione
giapponese in loco, sia il Ministro
degli Esteri Inoue Kaoru che il Di-
rettore delle Comunicazioni Pub-
bliche del Ministero degli Esteri
Asada Tokunori descrivessero le
isole come «vicine ai confini cinesi
(…) prossime a Taiwan e appar-
tenenti alla Cina» affermando che
«in questo attuale contesto, se noi
dovessimo pubblicamente porvi i
nostri stemmi nazionali, acuirem-
mo necessariamente i sospetti (per
un attacco in armi; Ndr) della Ci-
na …». Poi ci fu l’evidenza della
guerra e i “sospetti” non costitui-
rono più un impedimento diplo-
matico. Le isole, sia pure con atto
unilaterale segreto, vennero annes-
se.
La cosa si complica ancora, an-
che se all’epoca poteva sembrare
un colpo di spugna, con la scon-
fitta della Cina che il 17 aprile
1895 fu costretta a firmare il Trat-
tato di Shimonoseki, con il quale
cedette «Taiwan e le sue isole» al
Giappone. Dal momento che le
isole Diaoyutai erano parte di Tai-
wan, l’atto unilaterale segreto
giapponese del 14 gennaio dello
stesso anno rimase ignoto in quan-
to le basi giuridiche del possesso
da parte del Giappone di quelle
venivano poste e sancite da quel
trattato, che però verrà reso nullo
al termine della Seconda Guerra
Mondiale, in applicazione della
Dichiarazione del Cairo del 1943
nella quale si affermava che «tutti
i territori sottratti alla Cina da
parte del Giappone, quali la Man-
ciuria, Formosa (Taiwan) e le Pe-
scadores, devono ritornare alla
Repubblica di Cina. Il Giappone
sarà anche espulso da tutti quei
territori che ha preso con la forza
e l’avidità».
Semplice e definitivo. Niente
affatto. Le Isole Diaoyutai aveva-
no anche cambiato nome in Isole
Senkaku, quisquiglia di cui nessu-
no si accorse da parte cinese sin-
ché ci si riferiva a dei sperduti sco-
gli disabitati, divenuta però oggi
motivo di tensione con tre diversi
attori, Cina continentale, Taiwan
e Giappone, dal momento che
l’area è stata classificata come in-
teressante per le sue risorse sotto-
marine. Fortunatamente, nono-
stante le tensioni che hanno avuto
un culmine con il pattugliamento
dei vari attori con naviglio civile
e militare, non siamo più ai tempi
delle guerre facili. Forse una pro-
posta pragmatica, avanzata da
Taiwan, potrebbe sbloccare la si-
tuazione. Si tratterebbe di mettere
in secondo piano l’ingarbugliata
questione sulla sovranità, resa an-
cora più complicata dal fatto che
Taiwan non è formalmente indi-
pendente dalla Cina continentale,
che ne rivendica la giurisdizione,
aprendo invece un tavolo di trat-
tativa sullo sfruttamento delle ri-
sorse.
Al riguardo possiamo solo
esprimere auspici formali, anche
se confortati dal fatto che proprio
il pragmatismo del Presidente del-
la Repubblica di Cina (denomina-
zione ufficiale di Taiwan, mentre
quella della Cina continentale è
Repubblica Popolare Cinese) Ma
Ying-jeo ha reso possibile la nor-
malizzazione delle relazioni tra “le
due sponde dello Stretto”, cioè tra
Taiwan e la Cina continentale.
L’approccio a cui si ispira il Pre-
sidente Ma è che mentre la sovra-
nità è un concetto assoluto ed in-
divisibile, le risorse possono essere
condivise con vantaggio di tutti
gli attori.
GIORGIO PRINZI
Il governo di Taipei, che
teoricamente fa parte
della Cina suggerisce
di condividere le risorse
Per i cinesi sono Diaoyu,
per i giapponesi Senkaku
Entrambi hanno ragioni
storiche per rivendicarle
n Egitto, oggi, si vota per il re-
ferendum costituzionale. Nono-
stante le proteste, a meno di due
settimane dall’approvazione della
bozza della nuova legge suprema,
il popolo è chiamato a votare. Nel-
la maggior parte dei casi, senza
neppure sapere che cosa stia sce-
gliendo. E parliamo, tra l’altro, di
una bozza di Costituzione votata
dai soli partiti islamisti (Fratelli
Musulmani e Salafiti) e boicottata
da tutti gli altri. I cristiani sono
particolarmente a rischio. La nuo-
va legge suprema, se approvata, li-
miterebbe la loro libertà e potreb-
be spianare la strada ad una vera
e propria discriminazione di Stato.
Nell’immediato, i cristiani sono in
pericolo perché i Fratelli Musul-
mani li accusano di essere dietro
alle manifestazioni contro il refe-
rendum e di voler boicottare il vo-
to. Secondo i maggiori esponenti
delle chiese cristiane d’Egitto, que-
ste sono solo calunnie. Ieri, il por-
tavoce cattolico Rafic Greiche, ha
ribadito che: «Le Chiese non han-
no dato indicazioni sul voto. Cia-
scun fedele sarà libero di votare in
modo favorevole o contrario alla
nuova Costituzione». In ogni caso:
«La nostra speranza è che la co-
stituzione non passi - spiega padre
Greiche all’agenzia Asia News - Il
clima è molto diverso da quello del
precedente voto sulla Costituzione
avvenuto all’indomani della caduta
I
di Mubarak. Questa volta il fronte
del ‘no’ sarà molto consistente e
non potrà essere ignorato». Tutti
i partiti democratici invitano a vo-
tare “no”, più che all’astensione.
È un modo per contarsi, forse più
efficace. Anche se, stando alle re-
centi esperienze di voto, gli islami-
sti contano sul consenso di una
maggioranza schiacciante nel Pae-
se. Gli imam sunniti invitano a vo-
tare “sì”, tuonano contro chi vuole
boicottare il referendum. La loro
tesi è che l’approvazione della Co-
stituzione sia l’unica “via di uscita
dal caos”. Ma cosa rischiano don-
ne e minoranze se dovesse passare?
Rischiano la pace del cimitero. Un
regime islamico in cui, a dettare
realmente legge, sarebbero gli stu-
diosi del Corano dell’Università di
Al Azhar del Cairo, esplicitamente
citati dalla bozza costituzionale co-
me fonte primaria di interpreta-
zione per tutte le norme in materia
familiare e religiosa. Matrimoni
minorili, poligamia, discriminazio-
ne delle donne sul lavoro, sono già
una realtà nell’Egitto di oggi. In
quello di domani potrebbero di-
ventare caratteri immutabili, ga-
rantiti dalla legge suprema. I cri-
stiani,
già
informalmente
discriminati, si troverebbero a vi-
vere in un Paese in cui la legge è
dettata da chi interpreta la tradi-
zione coranica.
(ste. ma.)
L’OPINIONE delle Libertà
SABATO 15 DICEMBRE 2012
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