II
ESTERI
II
Tel Aviv e Gerusalemme nel mirino di Hamas
di
STEFANO MAGNI
rima Tel Aviv, poi Gerusalemme.
Hamas sta decisamente alzando
il tiro e dando una dimostrazione
della sua forza: dopo aver lanciato
razzi sulla principale città di Israele,
ieri ha tentato di colpire anche la
sua capitale. Ignorando anche le
possibili vittime arabe delle sue
azioni, cerca di portare morte e di-
struzione in una città che la Pale-
stina stessa considera sua capitale,
che, per metà della sua popolazione,
è araba ed è un luogo fondamentale
per l’Islam e il Cristianesimo, oltre
che per l’Ebraismo. Il razzo è cadu-
to alle porte della metropoli, senza
provocare danni o vittime, stando
ai primi rapporti della polizia israe-
liana. Ma è comunque un segnale
importante: nessuna città di Israele
può ritenersi al riparo dalla minac-
cia.
Oltre a Gerusalemme, Tel Aviv
è sotto attacco da due giorni. Anche
qui, nessun razzo è riuscito a pro-
vocare danni. Ma l’intento è chiaro:
dimostrare la pericolosità delle armi
nelle mani di Hamas (i razzi Fajr,
di fabbricazione iraniana, che si ag-
giungono ai Grad e agli artigianali
Qassam) e generare un senso di as-
soluta insicurezza nella popolazione
israeliana, ovunque si trovi. È infatti
la prima volta dal 1991 (dalla
Guerra del Golfo) che a Tel Aviv
suonano le sirene dell’allarme an-
ti-aereo e la gente deve correre nei
rifugi.
L’intenzione di Hamas è anche
un’altra: provocare una reazione
P
sproporzionata” dell’esercito israe-
liano. Finora il governo Netanyahu
ha deciso di rispondere solo con
raid aerei mirati. Circa 350 obbiet-
tivi militari (rampe e aree di lancio,
depositi di razzi e munizioni) sono
stati colpiti e il leader della branca
militare di Hamas è stato ucciso do-
po che l’intelligence ne aveva sco-
perto rifugio e movimenti. I morti
palestinesi, però (20 dall’inizio
dell’Operazione Pilastro della Di-
fesa) stanno già inondando i media
di tutto il mondo, provocando la
reazione ostile dei Paesi arabi e l’in-
dignazione dell’opinione pubblica
occidentale. Come sempre, d’altron-
de. L’atteggiamento dell’Egitto è già
estremamente preoccupante, da un
punto di vista israeliano. Perché
l’ambasciatore è stato richiamato e
il premier del Cairo, Hisham Qan-
dil, si è recato in visita a Gaza, pro-
prio ieri, per portare la sua solida-
rietà alla popolazione. «Questa
tragedia non può passare sotto si-
lezio – ha dichiarato Qandil – il
mondo deve assumersi la respon-
sabilità di fermare l’aggressione
(
israeliana, ndr)». L’Egitto ha ini-
ziato a far pressioni anche sugli Usa.
Il ministro degli Esteri, Kamel Amr,
ha chiesto al segretario di Stato Hil-
lary Clinton: «Un intervento imme-
diato per fermare l’aggressione
israeliana». L’atteggiamento del go-
verno egiziano è motivato da una
questione di parentela ideologica.
Il presidente Morsi e la maggioran-
za del governo sono espressione dei
Fratelli Musulmani, il movimento
che ha dato ispirazione a Hamas.
Tuttavia, finora, quelle egiziane so-
no solo parole. Non c’è (ancora) al-
cun segno che indichi come l’Egitto
si stia preparando ad una nuova
guerra arabo-israeliana. Ed anche
la reazione dei Paesi occidentali è
finora ufficialmente positiva per
Israele, nonostante la campagna
mediatica filo-palestinese stia anco-
ra una volta infiammando l’opinio-
ne pubblica dalle nostre parti. Ben
Rhodes, vice-consigliere per la si-
curezza nazionale degli Stati Uniti
ha dichiarato che: «spetta a Hamas
fermare l’escalation». E la respon-
sabilità del movimento islamista è
stata riconosciuta anche dai governi
del Regno Unito e, successivamente,
anche della Germania.
Un problema più grave inizie-
rebbe in seguito ad una reazione
più vasta da parte dello Stato ebrai-
co. Ed è possibile che scatti, da un
momento all’altro. Il governo Ne-
tanyahu ha dichiarato, chiaro e ton-
do, che i razzi contro Tel Aviv non
rimarranno impuniti. E, passando
dalle parole ai fatti, è stata ordinata
una mobilitazione di 30mila riser-
visti, di cui 16mila sono già sul pie-
de di guerra da ieri. Potrebbe trat-
tarsi solo di una dimostrazione di
forza, di un’intimidazione. Ma il
governo israeliano ha sempre di-
mostrato di far seguire i fatti alle
parole, soprattutto se la sua capitale
e la sua principale città sono sotto
attacco. La stampa più ostile a
Israele collega la determinazione di
Benjamin Netanyahu alla sua vigilia
elettorale. Ma quale governo rea-
girebbe diversamente, quando il
Paese è colpito così in profondità?
Anzi: lo stesso esecutivo Netanyahu
(
che è formato anche da Laburisti,
fra cui il ministro della Difesa, Ehud
Barak) ha finora tollerato uno stil-
licidio di razzi, lanciati da Gaza
contro le città meridionali. Se ne
contano 800 dall’inizio del 2012.
Solo quando i tiri sono diventati un
vero e proprio bombardamento, da
mercoledì scorso, la reazione israe-
liana è diventata più forte. Ma cosa
significherebbe un’operazione di ter-
ra, adesso? Sarebbe un notevole test
per le relazioni internazionali, oltre
che per l’esercito israeliano.
Da un punto di vista militare, è
quasi certamente da escludere un’in-
vasione di Gaza a tutto campo. Il
governo israeliano non ha alcuna
intenzione di occupare di nuovo la
città e la striscia di territorio costie-
ro che Sharon fece evacuare nel
2005.
Quel che ci si può attendere,
semmai, è una riedizione dell’Ope-
razione Piombo Fuso: la conquista
e la distruzione delle basi di Hamas.
Questa volta il movimento armato
islamista si è preparato meglio. Ha
disseminato Gaza di trappole e ha
predisposto una serie di tunnel e ri-
fugi sotterranei che potrebbero ren-
dere molto difficile un’operazione
di terra, come dimostra la prece-
dente esperienza di Hezbollah nella
Seconda Guerra del Libano.
Da un punto di vista politico,
un’operazione di terra sarebbe an-
cor più pericolosa. Perché l’Egitto,
che finora ha reagito solo a parole,
potrebbe fare un passo in più e
strappare il trattato di pace. Come
Morsi stesso non ha escluso di fare,
prima che venisse eletto presidente.
Gli Usa sarebbero ancora così con-
vinti di sostenere Israele anche con-
tro l’Egitto, tuttora alleato-chiave
di Washington nella regione? E,
inoltre, quali conseguenze potrebbe
avere una guerra a Gaza nella vici-
na Siria, considerando che i regolari
siriani e gli israeliani si son già
scambiati cannonate sul Golan? E
l’Iran, che già fornisce i razzi a Ha-
mas, non ne approfitterebbe per en-
trare nella mischia? Il dilemma di
fronte al quale si trova il governo
Netanyahu, dunque, è molto diffi-
cile da risolvere: lasciare che le prin-
cipali città israeliane vengano bom-
bardate, o intervenire con mano
pesante, andando incontro ad una,
quasi certa, catastrofe internazio-
nale?
La stessa capitale
di Israele è stata sfiorata
dai razzi lanciati
dai terroristi di Gaza
La leadership islamista
vuole provocare
una reazione israeliana
sproporzionata”
Boldrini racconta il dramma dei rifugiati in Siria
er capire il dramma della Siria,
lasciando agli analisti il compito
di teorizzare sul destino del suo lea-
der e sul futuro politico del Paese,
occorre leggere e interpretare questa
crisi in termini di vite umane coin-
volte. E non si parla solo degli oltre
25
mila morti finora accertati, secon-
do i dati forniti dal Centro di docu-
mentazione delle violazioni in Siria
(
aggiornate al 17 settembre), bensì
anche del fenomeno in costante cre-
scita di sfollati e rifugiati. A tutto
ciò si aggiunge l’ormai noto immo-
bilismo della comunità internazio-
nale, la saturazione dei Paesi confi-
nanti e il paradosso siro-iracheno. I
numeri che di seguito riportiamo
descrivono, seppur parzialmente, la
situazione drammatica che da 19
mesi a questa parte sta riducendo la
Siria in brandelli. Recentemente
L’Alto Commissariato delle Nazioni
Unite per i Rifugiati ha fornito gli
ultimi aggiornamenti sull’esodo si-
riano, denunciando l’acuirsi della
crisi degli sfollati e dei rifugiati ac-
P
colti, questi ultimi, entro i confini
turchi, libanesi, iracheni e giordani.
Triplicato in tre mesi il numero dei
rifugiati siriani”, si legge in un co-
municato stampa diffuso dall’Agen-
zia delle Nazioni Unite il 2 ottobre
scorso. Il triplo rispetto ad appena
tre mesi fa. Secondo gli ultimi dati,
sono complessivamente 311.500 i
rifugiati siriani registrati nei quattro
Paesi ospitanti, contro i 100mila di
giugno. L’Opinione ha intervistato
Laura Boldrini, portavoce del-
l’Unhcr, in merito al dramma degli
sfollati e dei rifugiati siriani. «La cri-
si siriana – ha affermato la porta-
voce – per essere compresa in tutta
la sua tragicità dev’essere conside-
rata in una duplice prospettiva, den-
tro e fuori i confini siriani, poiché
al dramma dei rifugiati scappati al
di là dei confini nazionali, si affianca
anche il dramma degli sfollati rima-
sti dentro la Siria». L’acuirsi della
violenza armata - a cavallo dei mesi
estivi - ha fatto registrare un aumen-
to vertiginoso del numero di sfollati
costretti a cercare riparo in scuole,
moschee ed edifici pubblici. Nel solo
mese di luglio sono state 7000 le
persone che hanno dovuto trovare
rifugio nelle residenze universitarie;
350
le persone stipate all’interno di
32
scuole. Senza contare le migliaia
di famiglie in condizioni di estrema
necessità da assistere: 300 quelle re-
gistrate quotidianamente dalla Mez-
zaluna Rossa Araba Siriana e dalle
altre associazioni umanitarie che
operano sul territorio. «E al dram-
ma di lasciare le proprie abitazioni
bombardate e ridotte in macerie –
sottolinea la Boldrini – si aggiunge
anche il dramma di vivere la condi-
zione di sfollati per ben cinque o sei
volte, prima di lasciare la Siria e ol-
trepassare i confini nazionali». Se-
condo una stima recente fornita dal-
la Croce Rossa Internazionale, gli
sfollati all’interno della Siria sfiorano
i due milioni di persone. Una cifra
impressionante e destinata ovvia-
mente ad aumentare con l’inasprirsi
dei combattimenti. E non si contano
tutti gli sfollati che attendono alle
frontiere turche, libanesi, irachene
e giordane. Ma l’emergenza umani-
taria non si registra solo entro i con-
fini siriani; anche nei paesi ospitanti
la situazione non è affatto tranquil-
la. Per alleggerire il carico sulle spal-
le dei Paesi che hanno deciso di apri-
re le frontiere e concedere ospitalità,
l’Unhcr ha pronto il Piano d’Inter-
vento in vista dell’Inverno. «L’Agen-
zia ha preventivato oltre 64 milioni
di dollari – ha spiegato la portavoce
dell’Unhcr – per i preparativi in tut-
ta la regione, fornendo così assisten-
za ad almeno 59mila famiglie, per
un totale di 500mila persone soc-
corse entro la fine dell’anno. Oltre
a somme in denaro, saranno forniti
anche aiuti non alimentari, quali
stufe e fornelli a kerosene». La vita
all’interno dei campi profughi alle-
stiti al confine turco, libanese, ira-
cheno e giordano non è sempre fa-
cile. Il 3 ottobre scorso un gruppo
di rifugiati nel campo di Atma, a ri-
dosso della frontiera con la Turchia,
ha indetto uno sciopero della fame
per richiedere l’apertura definitiva
della frontiera turca. La richiesta
non è stata accettata dal governo
turco che preferisce mantenere tem-
poranea l’apertura delle frontiere,
al fine di evitare un sovraccarico.
Anche a Camp Za’atari, nel nord
della Giordania e inaugurato il lu-
glio scorso, la situazione non è ro-
sea. In soli tre mesi di vita, il campo
ha accolto 36mila rifugiati. Tre set-
timane fa la Giordania ha inaugu-
rato un nuovo campo profughi, a
venti km dalla città di Zarqa. A ri-
ferirlo il quotidiano arabo Elaph.
Alle difficoltà da parte delle autorità
locali nel gestire un numero crescen-
te di profughi, si aggiunge un altro
problema: la capienza all’interno dei
campi stessi. Sia in Libano, sia in
Turchia il numero dei rifugiati ha
superato quota 100mila, e anche in
Iraq la situazione non è rosea. Al
momento si contano 39.036 di ri-
fugiati siriani, dislocati soprattutto
nella regione del Kurdistan. Come
ricorda la portavoce dell’Agenzia
Onu, al dramma dei rifugiati, degli
sfollati, si affianca anche la tragica
vicenda dei rifugiati iracheni scap-
pati a loro volta da un conflitto. La
diaspora di un milione di iracheni
verso la Siria era iniziata negli anni
compresi tra il 2006 e il 2008. A di-
stanza di cinque anni l’incubo si ri-
pete. Dal mese di giugno sono
44.833
gli iracheni che hanno la-
sciato la Siria per rientrare in Iraq.
Il governo iracheno ha predisposto
dei voli privati per rimpatriare i cit-
tadini con passaporto iracheno, e
nel contempo ha edificato dei campi
profughi per i siriani nel nord del-
l’Iraq. «La storia si ripete – ha sot-
tolineato Boldrini – come in un tra-
gico gioco della parti, in cui i
rifugiati di ieri sono gli ospitanti di
oggi e viceversa. A distanza di anni
proprio l’Iraq si trova a ricoprire il
ruolo di Paese ospitante».
PAMELA SCHIRRU
K
Laura BOLDRINI
Oltre ai 25mila morti
provocati dalla guerra
civile siriana, bisogna
considerare il dramma
dei profughi. Che sono
più di 300mila,
un numero triplicato
negli ultimi tre mesi
L’OPINIONE delle Libertà
SABATO 17 NOVEMBRE 2012
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