n quali mani finirà La7? I preten-
denti non sembrano mancare, ma
l’emittente targata Telecom Italia
assomiglia tanto alla sora Camilla,
che tutti la vogliono e nessuno la
piglia. Almeno prima della tornata
elettorale.
Ieri c’è stato un cda dell’azienda,
nel quale ci si sarebbe aspettati un
atto di indirizzo deciso circa la ces-
sione della controllata T.I. Media,
ed invece è stata ancora una volta
fumata nera. «Non è stato deciso
nulla» afferma una fonte vicina al
consiglio, che sottolinea come le
posizioni tra la società di telecomu-
nicazione e gli offerenti (Clessidra-
Equinox e Cairo) siano ancora lon-
tane. A meno di colpi di scena
quindi, neanche domani si cono-
scerà il destino di T.I. Media e il tut-
to non a caso è stato rimandato:
inzialmente al successivo cda di Te-
lecom del 7 febbraio. Poi, il tiro è
stato leggermente corretto: «Con-
tinuano le discussioni con le offerte
di Clessidra ed Equinox e quella di
Cairo - ha detto una fonte all’uscita
dal cda - e una decisione sarà presa
prima del cda del 7 febbraio».
Il clamore che la gara voluta da
Telecom Italia per La7 ha suscitato
tra gli addetti ai lavori, sta man ma-
no scemando, lasciando spazio alla
consapevolezza che la costosa emit-
tente resterà in portafoglio all’ex
monopolista delle tlc, a meno che
lo stesso gruppo presieduto da
Franco Bernabè non scenda a com-
promessi pur di disfarsi della za-
vorra tv, in funzione anchendi chi
sarà l’inquilino di palazzo Chigi.
Interessati il gruppo Cairo ed il
fondo Clessidra all’acquisizione del
canale tv. Per quanto riguarda l’edi-
tore piemontese, questi in realtà già
lavora con l’ex Tmc ma solo sul
fronte pubblicitario: infatti raccoglie
spazi ad un minimo garantito di
126
milioni l’anno (contratto in
I
scadenza nel 2019) ed avrebbe
chiesto a Telecom di accollarsi il
rosso di gestione almeno dell’anno
scorso e dell’esercizio in corso.
Mossa obbligata in funzione del
fatto che la Cairo Communication,
che ha in cassa più di 50 milioni,
non può investirli tutti in questa
operazione, altrimenti non avrebbe
più capitali disponibili per conte-
nuti e volti tv che permettano al-
l’emittente di mantenere l’attuale
livello di ascolti, che si aggira sul
3,67% (
bisognerebbe dire addio al-
le punte di share del 33,58% toc-
cate con l’apparizione di Berlusconi
ad anno Zero di Santoro e forse
anche la permanenza di mentana
alla quida del tg potrebbe essere
messa in discussione). Per esclusio-
ne l’unico pretendente solido degli
asset messi in vendita da T.I. Media
resta Clessidra, che ha offerto 300
milioni per portare a casa i multi-
plex digitali fornendo una valuta-
zione di zero euro, se non negativa,
a La7. Ma anche il fondo di Clau-
dio Sposito ci va con i piedi di
piombo perché sa che gestire que-
sto business non è così facile, e so-
prattutto è consapevole del fatto
che i profitti non arriveranno se
non prima di alcuni anni.
ALESSIOVALLERGA
di
MAURIZIO BONANNI
era una volta un’aquila finan-
ziaria. Volava alta, grande e
rapace, come la finanza speculati-
va mondiale che, alla stregua di
Enola Gay (il bombardiere di Hi-
roshima), guardava dall’alto il fun-
go nucleare della bolla speculativa
di Wall Street, appena partorita
dalla sua pancia infetta. Fosse per
me, sradicherei, senza pensarci due
volte, quei nidi d’aquila che cor-
rispondono alle Business Univer-
sity, italiane e internazionali, che
producono i grandi illusionisti del-
la moltiplicazione delle ricchezze
di carta. Chi, un giorno, oltre i ros-
si doc Camusso e Landini, rimet-
terà al primo posto, che gli spetta
di diritto, il capitale-lavoro? Penso
che debbano poter contare solo le
mani e le teste attive - producendo
beni e servizi che hanno un mer-
cato e una platea, più o meno am-
pia, di consumatori/utenti - e non
i giocolieri della finanza che spe-
culano, semplicemente, sui veri sa-
crifici dei faber, condannando a
morte - per scarsità di denaro
stampato dalla Bce - aziende sane,
molto spesso strangolate dai cre-
diti non riscossi dalla pubblica am-
ministrazione.
Un pressante invito a Draghi:
invece di prestare migliaia di mi-
liardi di euro alle banche, per ac-
quistare titoli del debito sovrano
degli Stati membri, perché non in-
vertire l’intero processo? Mi spie-
go meglio: sarebbe sufficiente im-
porre ai soggetti pubblici (che
acquistano sui mercati esterni beni
e servizi loro necessari) di pagare,
entro 30 giorni, i loro fornitori pri-
vati, indebitandosi essi stessi diret-
tamente con le banche, per procu-
rarsi la liquidità necessaria, dando
a garanzia dei prestiti ricevuti titoli
del debito pubblico, a tasso cal-
C
mierato, scontabili, a loro volta,
presso la Bce. Sarà, poi, la Corte
dei Conti, a posteriori, a dirci se
quei debiti contratti siano legittimi
o meno, mettendo eventualmente
le mani nelle tasche in caso di dolo
o malagestione, ai dirigenti pub-
blici responsabili degli ammanchi.
Invece di spremersi le meningi
su cose come queste, il Professore
che fa? Da aquilotto diventa gallo,
e si va a beccare nel gabbiotto del-
la propaganda elettorale con il suo
maestro Berlusconi, discettando
sul nulla. Intanto, a quanto pare
Monti, come la Fornero, non si fi-
dano più degli alti burocrati e dei
relativi apparati amministrativi
alle loro dipendenze, visto che il
primo smentisce la bontà del red-
ditometro e la seconda non fa al-
tro che appellarsi alla “trahison de
clercs” dei responsabili dell’Inps,
che l’hanno più volte bidonata sul-
la questione degli esodati. Chissà
se i ministri tecnici si sono mai po-
sti la seguente domanda: chi li ha
nominati e mantenuti al loro posto
quei burocrati (ir)responsabili? Vi
siete dati e ci avete dato, un crite-
rio democratico e meritocratico
per assunzione ed investitura?
Mai successo, a memoria d’uo-
mo. Eppure, sarebbe stato suffi-
ciente ancorare l’assegnazione de-
gli incarichi disponibili, a livello
centrale e periferico, a criteri og-
gettivi. Basterebbe, per questo, fare
ricorso a veri punteggi numerici,
in grado di pesare correttamente
curriculum ed esperienze profes-
sionali dei candidati. Il merito in-
dividuale, in tal senso, dovrebbe
avere due tipi di misurazione pos-
sibili. Il primo, farebbe leva, come
di consueto, sugli aspetti profes-
sionali. Il secondo, invece, per co-
loro che già svolgano incarichi
pubblici, sommerebbe algebrica-
mente i risultati, acquisiti nel tem-
po, della soddisfazione del cliente
(
altro che l’inutile spending re-
view). Ovvero: chi scontenta
l’utenza paga pegno, perdendo
punti in graduatoria.
Spiego con un esempio, pren-
dendo a riferimento una qualsiasi
struttura sanitaria, nei confronti
della quale l’utenza sia invitata a
esprimere il proprio indice di gra-
dimento. Se, a me cittadino, al mo-
mento del pagamento del ticket,
fosse consegnato contestualmente,
in busta sigillata (identica a quella
che mi viene trasmessa dalla banca
per il pin del mio bancomat), un
codice riservato di accesso al por-
tale della Asl che mi fornisce il ser-
vizio, potrei compilare, in maniera
assolutamente anonima (se non lo
so fare io, perché anziano o disa-
bile, provvederà al mio posto un
familiare, o persona di fiducia), il
modulo di gradimento della pre-
stazione ricevuta, dando i voti an-
che ai medici responsabili. Questo
perché non basta essere dei buoni
tecnici o professionisti, nella vita,
ma bisogna avere rispetto e trat-
tare il paziente come persona,
aspetto di cui troppi addetti ai la-
vori semplicemente si dimenticano
di fare, blindati come sono nelle
loro prerogative di casta.
Il giudizio negativo dell’utenza,
in merito alla prestazione, deve po-
ter incidere negativamente, poi, sia
sulla carriera, che sui trattamenti
accessori di risultato dei medici re-
sponsabili. Ecco: dal Monti-gallo
ci saremmo aspettati mosse come
queste, anziché le favolette del de-
bito pubblico e del fiscal compact
che sono soltanto compiti a casa
per la razza padrona, la stessa che
ha ridotto il Paese sul lastrico.
Sì, è tempo che i moderati
onesti facciano, finalmente, la lo-
ro rivoluzione, andando a votare
compatti.
II
POLITICA
II
Telecom Italia
vuole disfarsene
Per motivi diversi
Cairo e Clessidra
temporeggiano
L’azienda di Bernabè
ne deciderà il destino
dopo le elezioni
segue dalla prima
La guerra inMali
(...)
L’esempio dell’intervento francese nel
Mali lo dimostra. Ai paesi dell’Europa del
Nord, che si considerano lontani dall’infe-
zione jihadista dell’Africa sahariana, non in-
teressa minimamente imbarcarsi in una vi-
cenda bellica in cui hanno tutto da perdere
e ben poco da guadagnare (anche se alcuni
di questi paesi hanno interessi petroliferi ri-
levanti nell’area). A quelli dell’Europa dell’Est,
che non hanno neppure gli interessi petroliferi
in questione, interessa ancora meno contri-
buire a contenere la spinta del terrorismo
islamico in Africa centrale. E solo ai paesi
europei della fascia mediterranea preoccupa
bloccare per tempo una pressione che se tro-
vasse uno sbocco addirittura maggiore di
quello che già ha nei paesi arabi della sponda
Sud li farebbe ritrovare in prima linea nella
guerra di civiltà dichiarata dal fondamenta-
lismo islamico contro l’Occidente. In una
campagna elettorale come quella italiana in
cui si discute e si polemizza a gran voce su
chi è più europeista di chi, il tema della as-
senza di politica estera della Unione europea
sollevato con tanta evidenza dall’intervento
francese nel Mali, dovrebbe diventare la più
esatta e risolutiva cartina di tornasole del
reale grado di europeismo delle forze in cam-
po. Chi è, infatti, più europeista? Lo è chi de-
nuncia l’inesistente politica estera della Ue e
solleva la questione dell’unione politica del-
l’Europa? Oppure chi difende l’Unione eu-
ropea così com’è lasciando intendere che è
meglio lasciare il Vecchio Continente ai soli
burocratici ed ai soli banchieri piuttosto che
esporla al vento della volontà popolare? An-
che in questo caso la risposta è scontata. Ma
c’è da dubitare che possa trovare mai spazio
nella campagna elettorale italiana.
ARTURO DIACONALE
Giustizia lumaca
(...)
che ogni anno vengono chiusi per sca-
denza dei termini. Ogni giorno almeno 410
processi vanno in fumo, ogni mese 12.500
casi finiscono in nulla. I tempi del processo
sono surreali: in Cassazione si è passati dai
239
giorni del 2006 ai 266 del 2008; in tri-
bunale da 261 giorni a 288; in procura da
458
a 475 giorni. Spesso ci vogliono nove
mesi perché un fascicolo passi dal tribunale
alla corte d’appello. Una situazione, a parte
gli irrisarcibili costi umani, che grava pesan-
temente sui conti dello stato. L’esasperante
lentezza dei processi penali e civili italiani
costano all’Italia qualcosa come 96 milioni
di euro l’anno di mancata ricchezza. Confin-
dustria stima che smaltire l’enorme mole di
arretrato comporterebbe automaticamente
per la nostra economia un balzo del 4,9 per
cento del Pil, e anche solo l’abbattere del 10
per cento i tempi degli attuali processi, pro-
curerebbe un aumento dello 0,8 per cento
del Pil. Grazie al cattivo funzionamento della
giustizia le imprese ci rimettono oltre 2 mi-
liardi di euro l’anno, e il costo medio sop-
portato dalle imprese italiane rappresenta
circa il 30 per cento del valore della contro-
versia stessa, a fronte del 19 per cento nella
media degli altri paesi europei. Ecco perché
ha ragione chi, come Marco Pannella, chiede
e si batte per l’amnistia. Per mettere in moto
quel meccanismo virtuoso che altrimenti re-
sterà, come è rimasto finora, inceppato. C’è
bisogno, come si dice ora, di un’agenda “po-
litica” sulla Giustizia, altro che “temi tecnici”,
come dice il ministro della Giustizia Severino.
I Pier Luigi Bersani e i Nichi Vendola, gli An-
tonio Ingroia, gli Antonio Di Pietro e i Beppe
Grillo, quanti si preparano alla scalata di Pa-
lazzo Chigi e del Quirinale, i compilatori di
programmi elettorali e di governo, su questo
non dicono e non propongono nulla; e c’è
da capirli: non ci sono poltrone o postazioni
di potere da occupare e spartire.
VALTER VECELLIO
L’economiadelProfessore
e il suoapproccioal contrario
Ancorafumatanera
per l’astasu“La7”
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VENERDÌ 18 GENNAIO 2013
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