a dicembre, senza che i gior-
nali italiani ed europei par-
lino molto della cosa, i dipenden-
ti pubblici palestinesi sono scesi
in sciopero in Cisgiordania, visto
che sia gli stipendi sia le tredice-
sime o quel che più a esse asso-
miglia, non sono stati pagati.
Non solo: dagli inizi dell’anno
oggi una delegazione farà il giro
dei Paesi arabi e degli altri dona-
tori a chiedere soldi. Servono
100
milioni di dollari al mese.
Ma i sospetti di molti osservatori
internazionali, anche arabi e isla-
mici, è che con Abu Mazen si stia
ripetendo il copione già visto con
Arafat: conti segreti all’estero e
distrazione di fondi pubblici.
Di tutte queste cose dava no-
tizia giorni orsono il sito “Rights
Reporter”, di solito molto bene
informato sulle questioni interne
all’Anp.
La decisione di inviare una
delegazione a elemosinare denaro
è stata presa nella seconda setti-
mana di gennaio dai Ministri de-
gli Esteri della Lega Araba riuniti
al Cairo. A guidare la delegazio-
ne sarà il Primo ministro della
Anp, Salam Fayyad, con lui il se-
gretario generale della Lega Ara-
ba, Nabil al-Arabi insieme ai mi-
nistri degli Esteri di Iraq e
Libano. È chiaro il carattere raf-
forzativo di questa delegazione,
visto che è stata proprio la Lega
D
Araba a promettere alla Anp 100
milioni di dollari al mese. I ma-
ligni fanno notare che questa de-
cisione poteva essere benissimo
deliberata dai Ministri degli Este-
ri della stessa Lega Araba.
Ma forse l’opera di convinci-
mento rafforzata va cercata su
alcuni dati importanti sulle ric-
chezze accumulate da Abu Ma-
zen e dai suoi due figli, Yasser e
Tarek Abbas. Secondo alcune
fonti palestinesi, riportate dal si-
to “Rights Reporter”, il patrimo-
nio in contanti (senza contare gli
immobili e altri valori) della fa-
miglia del Presidente della Anp
ammonterebbe a oltre 200 milio-
ni di dollari.
A parlarne è stato Moham-
med Rachid, ex consigliere eco-
nomico di Arafat “incaricato da
alcuni donatori di scoprire dove
finiscono i tanti milioni destinati
alla Anp”. Secondo un rapporto
preliminare, i figli di Abu Mazen
avrebbero diversi conti in Sviz-
zera e per trasferire il denaro
userebbero il passaporto diplo-
matico di Yasser Abbas.
Qualche tempo fa Abu Mazen
venne fortemente criticato per es-
sersi fatto fare le scarpe su misu-
ra da un artigiano italiano, scar-
pe che costano 25mila dollari al
paio. Tuttavia la censura palesti-
nese mise subito a tacere le voci
e nessuno ne parlò più. Ora que-
sto rapporto potrebbe mettere a
nudo nuovi episodi di presunta
appropriazione indebita, magari
da parte dei familiari del presi-
dente palestinese ai danni dei
suoi cittadini. Andare in giro a
chiedere denaro quando tutti or-
mai sanno che fine fanno buona
parte di quei soldi diventa quindi
sempre più difficile. Per la cro-
naca l’economia palestinese va
avanti ormai con gli stipendi di
coloro che hanno la fortuna di
lavorare per le ditte israeliane,
proprio quelle che i pacifinti vor-
rebbero boicottare.
DIMITRI BUFFA
II
ESTERI
II
Qualche lecito dubbio sulla Francia inAfrica
di
STEFANO MAGNI
a crisi degli ostaggi in Algeria
sta diventando un caso macro-
scopico. In attesa di conoscerne l’esi-
to con esattezza e di sapere quanti
siano realmente i caduti e quanti i
liberati (le notizie date dalle agenzie
locali si rincorrono e si contraddi-
cono), restano molti dubbi sull’op-
portunità della politica francese in
Africa.
Primo dubbio: il sequestro dei
dipendenti di un impianto del gas
della Bp in Algeria orientale è vera-
mente conseguenza diretta dell’in-
tervento militare francese nel Mali?
I terroristi di Aqmi dicono ovvia-
mente di sì e giustificano il loro atto
criminale come una risposta alla
oppressione dei musulmani d’Afri-
ca” da parte dei francesi. Ma, più
emergono i dettagli dell’operazione,
più si capisce che l’azione di seque-
stro è stata pianificata da tempo, al-
meno da alcune settimane. I terro-
risti non hanno improvvisato,
conoscevano l’impianto, sapevano
quale fosse l’entità delle forze di si-
curezza. Inoltre non si tratta di
un’azione rivolta contro un obietti-
vo francese. L’impianto è della Bri-
tish Petroleum ed era gestito anche
dalla compagnia energetica algerina,
la Sonatrach e da quella norvegese,
la Statoil. Fra i cittadini stranieri se-
questrati e probabilmente già uccisi,
sono rappresentati popoli di tutto
il mondo, dagli americani ai giap-
ponesi, passando per i norvegesi e i
filippini, senza contare i numerosi
lavoratori algerini. I francesi ci sono,
L
ma sono una minoranza. Al Qaeda
ha sempre avuto buon gioco di far
passare le sue azioni come “difensi-
ve” o per “rappresaglie” contro veri
o presunti crimini occidentali. Ma
alla fine, analizzando bene caso per
caso, sono i terroristi che attaccano
per primi, pianificando con cura le
loro azioni. Si può parlare di “rap-
presaglia” solo in termini vaghi e
solo se si dà ragione alla visione del
mondo degli jihadisti, secondo cui
tutto il mondo islamico starebbe vi-
vendo un enorme assedio da parte
dell’Occidente. Da questo punto di
vista, i francesi possono uscirne con
la coscienza pulita. L’attacco in Al-
geria è la dimostrazione pratica che
Aqmi è un pericolo per tutti. E che,
dunque, la guerra che i francesi stan-
no combattendo contro gli jihadisti
in Africa è più che giustificata.
Secondo: anche considerando
che l’attacco terroristico in Algeria
non c’entri nulla con il Mali, la
Francia può attendersi altre rappre-
saglie per il suo intervento armato?
Sicuramente sì. L’attacco all’impian-
to della Bp è la dimostrazione che
Aqmi sia molto attiva. E i possibili
obiettivi francesi nell’area del Sahel
sono molto numerosi: basi militari,
impianti petroliferi e del gas, miglia-
ia di cittadini presenti a vario titolo
nella regione. In Somalia (che è al
di fuori dell’area di interesse fran-
cese) gli jihadisti Shebaab (anch’essi
legati ad Al Qaeda) hanno annun-
ciato l’uccisione dell’ostaggio Denis
Allex. E quella sì può essere stata
una rappresaglia diretta per il Mali,
oltre che per il fallito raid di libera-
zione (altri due soldati francesi mor-
ti). Più si prolunga la guerra nel Ma-
li più saranno probabili le vendette
di Al Qaeda, soprattutto in Africa.
E la rete del terrore, benché orfana
di Bin Laden, è molto diffusa. Pro-
prio per il fatto che Al Qaeda ha
perso la sua testa e mente pensante,
la sua struttura è ancor più decen-
trata e imprevedibile. Nel solo Mali
ci sono almeno due sigle (Mujao e
Ansar Dine) legate a quel network.
La stessa banda armata che ha con-
dotto l’assalto all’impianto della Bp
in Algeria, guidata dall’ex contrab-
bandiere Mokhtar Belmokhtar è
considerata scissionista rispetto ad
Aqmi. È ancora più integralista e
vuole esportare la jihad anche oltre
la regione del Sahel. In tutta la re-
gione africana occidentale si molti-
plicano le sigle più o meno diretta-
mente imparentate con Al Qaeda.
E non è da escludere un prossimo
attentato nella stessa Francia, o con-
tro Paesi che ne stanno sostenendo
lo sforzo militare. Italia inclusa. La
scia di sangue lasciata da Moham-
med Merah a Tolosa, lo scorso mar-
zo, lo smantellamento di una rete
terroristica in Francia, lo scorso
aprile, sono tutte dimostrazioni di
quanto il terrorismo jihadista sia an-
cora ben presente nel cuore della
Francia. Se la guerra dovesse conti-
nuare ancora a lungo, lo jihadismo
potrebbe non essere l’unico proble-
ma da affrontare. Se Parigi dovesse
decidere di restare in Mali fino alla
piena restaurazione della sua inte-
grità territoriale e al reinsediamento
di un governo democratico e legit-
timo, si invischierebbe in un conflit-
to complesso tanto quanto quello
in Afghanistan. Perché dovrebbero
sanare un passato che, solo nell’ul-
timo anno, comprende una guerra
di secessione e due golpe, una po-
polazione in cui l’odio fra etnie (so-
prattutto fra i neri del Sud e i tuareg
del Nord) è virulento. Affidando la
restaurazione dell’integrità territo-
riale ai militari del Sud, sono possi-
bili vendette massicce e massacri
contro i secessionisti del Nord. In-
tervenendo direttamente nel gestire
la transizione dalla guerra alla pace,
invece, la Francia rischia di inimi-
carsi tutte le parti in lotta. Si prefi-
gura una scenario in cui Parigi può
uscire comunque perdente.
Terzo: i francesi sono del tutto
estranei alla crescita dell’integrali-
smo islamico nel Maghreb o hanno,
almeno in parte, sono responsabili
per la sua espansione? Ragionando
in termini di semplice azione-rea-
zione, i contestatori francesi dell’in-
tervento, a partire dal comunista Je-
an Luc Melenchon e dai gollisti
Dominique De Villepin e Valéry Gi-
scard d’Estaing, ritengono che con
la guerra “neocolonialista” nel Mali
i francesi non potranno far altro che
gonfiare le file dei loro nemici isla-
misti. Il problema, però, è che la
guerriglia fondamentalista è già
molto forte nella regione. E dunque
questo intervento militare non può
far altro che cercare di contrastarne
la crescita. È semmai nel passato più
recente che i francesi hanno invo-
lontariamente contribuito ad ali-
mentare il loro nemico. Rovescian-
do il regime di Gheddafi in Libia,
con un intervento fortemente voluto
da Parigi, si è aperto il vaso di Pan-
dora delle milizie islamiche norda-
fricane, che hanno potuto maturare
esperienza di guerra sul campo e
conquistare interi depositi di armi
abbandonati dai regolari libici. Tutto
è legato: i terroristi islamici che han-
no ucciso l’ambasciatore Christo-
pher Stevens a Bengasi provenivano
dal Mali. Le milizie tuareg che com-
battevano con Gheddafi, sono poi
quelle che hanno provocato la se-
cessione dell’Azawad (il Nord del
Mali) e dato inizio all’attuale con-
flitto. I francesi, insomma, hanno
peccato di incoerenza. Attaccando
Gheddafi in Libia hanno indiretta-
mente aiutato quegli stessi islamisti
che ora devono combattere in Ma-
li.
Apostata”Usa
processato in Iran
Ma dove finiscono i milioni
destinati alla Palestina?
L’attacco all’impianto
della Bp inAlgeria
non è una risposta
alla guerra nel Mali
È il conflitto in Libia
del 2011 che ha aperto
il vaso di Pandora
dello jihadismo locale
K
Abu MAZEN
incubo del regime totalitario
iraniano ti insegue ovunque.
Non basta emigrare negli Stati
Uniti per sfuggirgli. Specie se ri-
torni alla patria di origine, puoi
comunque essere processato e
condannato in base alla legge di
Teheran. Non stiamo parlando di
Salman Rushdie, ma di un uomo
che ha molta meno visibilità: Sa-
eed Abedini, 32 anni, colpevole di
essersi convertito al cristianesimo
negli Usa. Abedini, nato e cresciu-
to in Iran, vive nel Nuovo Mon-
do. Ha sposato una cittadina sta-
tunitense, Naghmeh, anche lei di
origine iraniana. Nel 2000 si è
convertito al cristianesimo. Lega-
lissimo, secondo le leggi america-
ne. Ma vietato in Iran, dove l’apo-
stasia non è solo un peccato (nei
confronti della religione), ma an-
che un reato (nei confronti dello
Stato). Per tre anni, Saeed ha sfi-
dato la sorte recandosi spesso in
Iran e prendendo contatti con la
locale comunità cristiana. Che, nei
termini del diritto di Teheran, è
una protetta: il Cristianesimo è
una religione di minoranza legal-
mente riconosciuta. Tuttavia, Sa-
eed inizia ad avere i primi proble-
mi nel 2009, quando la polizia lo
ferma, lo arresta e lo costringe a
firmare una dichiarazione in cui
promette di non fare proseliti in
Iran. Dal 2009 al 2012, l’“apo-
stata”Abedini torna più volte nel-
L’
la sua terra di origine, non solo
per andare a visitare i suoi fami-
liari, ma anche per contribuire a
raccogliere fondi per la costruzio-
ne di un orfanatrofio. Nel settem-
bre del 2012, però, durante una
di queste visite, sono scattate le
manette. Le autorità di Teheran
hanno già sequestrato 105mila
dollari dal conto di una banca ira-
niana dove venivano raccolti i
fondi per l’orfanatrofio. Dopo
quattro mesi di carcere, lunedì
prossimo Abedini dovrà affronta-
re un processo breve. Che promet-
te veramente male. Perché, a giu-
dicare, sarà il magistrato Abbas
Pir-Abassi, già colpito dalle san-
zioni europee per violazione dei
diritti umani. L’avvocato di Saeed
Abedini, secondo l’associazione
American Center for Law and Ju-
stice, ha potuto avere accesso al
dossier sul suo cliente da appena
una settimana. Non gli è stato da-
to il tempo materiale di preparare
una solida difesa. Per apostasia si
rischia la morte. Stando a quanto
riferito alla stampa dal suo legale,
su Abedini pende la condanna per
attentato alla sicurezza naziona-
le”. Victoria Nuland, portavoce
del Dipartimento di Stato ameri-
cano, esprime “seria preoccupa-
zione” sulla sorte del suo concit-
tadino. Ma non chiede la sua
liberazione.
(
ste. ma.)
L’OPINIONE delle Libertà
SABATO 19 GENNAIO 2013
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