di
STEFANO MAGNI
ohammed Morsi è il primo
presidente democraticamente
eletto in Egitto. Ma rischia di di-
ventare anche l’ultimo. Con un de-
creto emesso nella serata di giovedì
22
novembre, ha assunto poteri
molto superiori a quelli costituzio-
nali. Di fatto, ha emesso la sua ver-
sione del dogma dell’infallibilità,
presidenziale in questo caso, non
papale: secondo il decreto, infatti,
tutti gli atti presidenziali emessi, da
quando è in carica, non potranno
più essere revocati. Contro di essi
non si potrà neppure ricorrere in
appello, né istituzionalmente, né in-
dividualmente. Il procuratore gene-
rale sarà nominato direttamente dal
presidente Morsi. L’Assemblea Co-
stituente, che sarà, con tutta pro-
babilità dominata dai Fratelli Mu-
sulmani (almeno a giudicare dalle
elezioni che diedero vita alla prima,
breve, Assemblea), avrà due mesi di
tempo in più per redigere una nuo-
va Costituzione. E nessuna corte
della magistratura avrà più il potere
per dissolverla. Infine, il presidente
avrà la facoltà di prendere “tutti i
provvedimenti necessari” per pre-
servare “i valori della rivoluzione,
l’integrità nazionale e la sicurezza”
del Paese. Di fatto, Mohammed
Morsi è il nuovo dittatore dell’Egit-
to, sostenuto dal partito maggiori-
tario Libertà e Giustizia, espressione
M
del movimento islamico dei Fratelli
Musulmani.
Morsi è Mubarak!” gridano
migliaia di egiziani accorsi a prote-
stare in Piazza Tahrir, in una sorta
di riedizione della rivoluzione del
2011.
Ma forse non si rendono an-
cora conto che Morsi potrebbe es-
sere molto peggio di Mubarak. L’ex
dittatore, spodestato nel 2011, ten-
deva ad essere laico. Reprimeva il
dissenso, ma non intendeva trasfor-
mare la legge e la società secondo
i dettami coranici. Il partito Libertà
e Giustizia, al contrario, è nato al-
l’insegna della rivoluzione islamica.
Benché si sia moderato, in questo
primo anno al potere, la sua agenda
è ancora basata sulla legge coranica
e sulla sua imposizione a tutti gli
egiziani. La minoranza cristiana, già
perseguitata e poco tutelata dalla
polizia, rischia, nell’immediato fu-
turo, di essere anche legalmente di-
scriminata e repressa. Le donne, già
emarginate nella società egiziana,
rischiano la segregazione, come av-
viene negli altri regimi islamici. Il
moderatismo finora seguito da
Morsi, sia all’estero che in patria,
era motivato soprattutto dai limiti
imposti al suo potere da un vero e
proprio “contro-golpe” militare e
giudiziario della scorsa primavera.
Il nuovo decreto presidenziale eli-
mina il principale contrappeso co-
stituzionale: il potere giudiziario.
Da questo momento in poi, solo
l’esercito potrà contrastare una pre-
sa del potere totale dei Fratelli Mu-
sulmani. E nessuno garantisce che
lo voglia fare, considerando che fra
ufficiali e sottufficiali è già diffusa,
da anni, la penetrazione degli isla-
misti. Lo scenario che l’Egitto ri-
schia è lo stesso di Gaza. Anche nel-
la vicina città palestinese, infatti,
Hamas (che è pur sempre una di-
ramazione dei Fratelli Musulmani)
vinse le elezioni nel 2006, ma poi,
nel 2007, estromise il governo di
Fatah e si attribuì poteri dittatoriali.
Il seguito lo conosciamo bene: bloc-
co di Gaza e guerre a intermittenza
contro Israele.
II
ESTERI
II
Un nuovomissile
nordcoreano
Morsi è il nuovoMubarak?
Potrebbe essere anche peggio
Oltre ad austerity e spesa, un’altra Ue è possibile
l summit europeo per definire il
bilancio comunitario è stato più
difficile ancora rispetto alle previ-
sioni. Inizialmente la Commissione
aveva previsto di fissare un tetto
massimo alla spesa pubblica comu-
nitaria di 1025 miliardi di euro.
Giovedì sera, il presidente del Con-
siglio Europeo, Herman Van Rom-
puy, aveva già abbassato il tetto a
973
miliardi di euro. Fra i tagli pro-
posti nella soluzione di compromes-
so figuravano 11 miliardi dal fondo
di coesione (per aiutare le regioni
più povere d’Europa) e 7,7 dai fondi
per l’agricoltura. Ma anche questa
soluzione di compromesso non è
servita ad arrivare a un accordo. Il
summit è fallito.
Se guardiamo alle cronache di
queste due giornate, la colpa delle
difficoltà viene attribuita al solo Re-
gno Unito e al suo premier, David
Cameron, che si è opposto a qual-
siasi aumento della spesa pubblica
comunitaria. Cameron ha minaccia-
to il veto, in modo da congelare
ogni futuro aumento delle spese, se-
guito dalle sole Svezia e Olanda.
Si può comprendere questa po-
sizione guardando alla dicotomia
Paese contribuenti/beneficiari” della
spesa pubblica. Come già vediamo
su scala nazionale, anche a livello
europeo si sta ripetendo la lotta fra
i produttori e i consumatori di tasse.
I Paesi che maggiormente contribui-
scono al bilancio europeo sono, ap-
punto, il Regno Unito, la Germania,
la Francia e l’Italia. A questo punto,
però, non si capisce perché la Fran-
cia e l’Italia siano favorevoli ad una
I
politica di maggior spesa pubblica
comunitaria (che peserebbe anche
sulle nostre tasche), mentre solo Re-
gno Unito e Germania si oppongo-
no. E unicamente Londra minaccia
il veto, mentre la Germania resta più
possibilista. Il problema sul tavolo,
dunque, è più politico che economi-
co. Si contrappongono due visioni
dell’Europa. Ad un estremo, abbia-
mo la Francia del socialista François
Hollande, che mira ad una maggior
unità politica dell’Europa per far
funzionare un meccanismo di redi-
stribuzione che tassa le nazioni ric-
che per sostenere quelle povere. Hol-
lande, introducendo un’imposta del
75%
ai redditi superiore al milione
di euro anni, nel suo Paese sta dan-
do l’esempio di come funziona il
modello che vorrebbe imporre an-
che al resto dell’Ue. All’estremo op-
posto abbiamo il governo conser-
vatore e liberale del Regno Unito
che taglia la spesa pubblica in patria
e vorrebbe che altrettanta austerità
venisse seguita anche dal resto del-
l’Ue. Quale dei due modelli funzio-
na di più? In teoria, dovrebbe es-
sere sotto gli occhi di tutti: i ricchi
francesi stanno portando via i ca-
pitali (e se stessi) per salvarsi dal-
l’esproprio di Hollande. Anche un
mito del cinema d’Oltralpe, come
Gerard Depardieu, a quanto pare,
sta preparandosi una via di fuga
nel vicino Belgio. Il Regno Unito,
al contrario, resta una delle princi-
pali piazze finanziarie del mondo
e la principale in Europa.
A proposito di crisi, tutti i Paesi
che attualmente stanno subendo la
peggiore recessione (Grecia, Spagna
e Portogallo… ma anche l’Italia)
hanno una spesa pubblica fuori
controllo. La Grecia non fa più te-
sto: il suo Stato è già, tecnicamente,
in bancarotta. Sopravvive solo gra-
zie agli aiuti internazionali e a ri-
forme estorte dai creditori. Al con-
trario, l’Irlanda, che è ricorsa
maggiormente a politiche di “au-
sterità” è uscita dalle pagine di cro-
naca nera economica.
Fra i Paesi che optano per l’au-
sterità, c’è anche da distinguere fra
chi alza le tasse e chi, invece, si con-
centra sui tagli della spesa pubblica.
Il Portogallo e l’Italia, per esempio,
sono “austeri”, ma solo nel senso
che alzano le tasse, per continuare
a finanziare una spesa pubblica che
viene solo marginalmente tagliata.
La Spagna sta iniziando a tagliare
le spese, ma solo da quando al go-
verno c’è il popolare Rajoy. L’Irlan-
da, al contrario, mantiene, sin dal-
l’inizio della crisi, un fisco e una
regolamentazione del mercato fra i
più liberi del mondo. Ha ancora
problemi, ma questi sono causati
ancora dal suo indebitamento pub-
blico, contratto per cercare di sal-
vare le sue banche in crisi. Quindi,
ancora una volta: un problema di
spesa pubblica. Più ancora dell’Ir-
landa, anche le repubbliche baltiche
(
Estonia, Lettonia e Lituania) hanno
adottato una strategia di maggiori
liberalizzazioni per uscire dalla crisi.
E i risultati sono buoni, addirittura
sorprendenti.
Guardando agli esempi nazio-
nali, insomma, vediamo come sia
palesemente lontana dalla realtà
la contrapposizione austerità/spe-
sa: dipende da cosa si intende per
austerità”. Se tassi di più i tuoi
cittadini, restringi il campo della
libera iniziativa, poi è evidente che
nessuno abbia più i mezzi e le ri-
sorse per crescere. O anche solo
per sopravvivere. Se invece riduci
la spesa pubblica e lasci liberi i
tuoi cittadini, hai più probabilità
che almeno una parte di essi pos-
sa far ripartire l’economia.
Purtroppo sembra proprio che
al summit europeo non siano giunti
a queste conclusioni. David Came-
ron è stato accusato (dagli altri lea-
der e dai media) di voler boicottare
la crescita per ragioni egoistiche. Per-
ché, nonostante tutte le prove dimo-
strino il contrario, c’è ancora la con-
vinzione che più spesa pubblica (e
dunque: più tasse) significhi neces-
sariamente più crescita. Cameron si
oppone a questa visione dell’econo-
mia e per questo, sia lui che i pochi
governi europei che lo seguono, ven-
gono giudicati come dei sabotatori.
Vige ancora il dogma dello Stato so-
ciale e dello Stato imprenditore: solo
il governo può creare (dal nulla?)
posti di lavoro, crescita e benessere.
Un deputato europeo verde come
Daniel Cohn Bendit arriva addirit-
tura a credere (e dichiarare) che la
ricchezza degli Usa sia dovuta uni-
camente alla crescita della sua spesa
pubblica, dagli anni di Roosevelt in
avanti. Dimenticando, volutamente,
ferrovie, secolari innovazioni, grandi
industrie e grandi flotte mercantili
che hanno fatto grande l’America
dal XIX Secolo, quando il governo
federale era ancora ridotto ai minimi
termini e non esisteva neppure una
spesa sociale”.
All’infuori dei conservatori bri-
tannici e di rari loro alleati, nessuno
sembra voler vedere che c’è un’altra
crescita possibile: quella della dere-
golamentazione, della detassazione,
della libera circolazione di merci,
capitali e servizi. Provvedimenti più
liberali, come la direttiva Bolkestein
del 2006, vengono annacquati e
snaturati. I governi dell’Europa con-
tinentale preferiscono tenere i con-
fini chiusi e, piuttosto, trasferire ric-
chezze da Stato a Stato, sempre a
spese dei contribuenti. Vedere l’Eu-
ropa come “un grande mercato
aperto” diventa un insulto, puntual-
mente rivolto contro Cameron.
(
ste. ma.)
Quale austerity? Gli Stati
che alzano le tasse
falliscono. Si salva
chi taglia le spese
Cameron propone meno
spese e più libertà
di mercato. E per questo
è un“sabotatore”
K
Mohammed MORSI
a Corea del Nord non vuole
che la comunità internazio-
nale si dimentichi della sua esi-
stenza. E lo fa a modo suo: pre-
parando un test missilistico. Già
lo scorso aprile, all’indomani del-
l’ascesa al potere del nuovo lea-
der Kim Jong-un, i nordcoreani
avevano testato un nuovo missile
a lungo raggio. Teoricamente si
doveva trattare di un vettore ci-
vile, capace di lanciare in orbita
un satellite sperimentale delle te-
lecomunicazioni. Ma anche lo
Sputnik (quello lanciato dai so-
vietici nell’ottobre del 1957) era
un satellite sperimentale. Peccato,
però, che un anno dopo si sia
trasformato in un programma
militare: i sovietici si dotarono,
usando la stessa tecnologia, dei
primi missili balistici interconti-
nentali. E, da allora, la guerra
fredda assunse l’aspetto tetro di
minaccia imminente di distruzio-
ne reciproca di Usa e Urss. I nor-
dcoreani non sono ancora riusci-
ti a dotarsi di una tecnologia che
li renda capaci di colpire gli Usa.
E i tempi potrebbero essere mol-
to più lunghi, viste le pietose
condizioni in cui è ridotta la loro
economia. Il lancio dello scorso
aprile non era riuscito: il missile,
stando ai rapporti di intelligence
di Usa, Giappone e Corea del
Sud, era esploso due minuti dopo
il lancio. Aveva comunque pro-
L
vocato un grande scalpore, per-
ché in violazione alle risoluzioni
Onu che vietano questi test sin
dal 2006. Il fatto che, nei pros-
simi giorni, il regime di Pyon-
gyang ci voglia riprovare, dimo-
stra solo come il nuovo leader
Kim Jong-un sia determinato a
provocare i vicini e gli Stati Uniti
anche con metodi estremi.
Chiunque si aspettasse una svol-
ta moderata del figlio di Kim
Jong-il, finora, non può che ri-
manere deluso.
La notizia dei preparativi del
nuovo lancio è stata diffusa ieri
dai media giapponesi. E sarebbe
corroborata da nuove foto satel-
litari che documentano i lavori
in corso: spostamento di compo-
nenti di un vettore a lungo rag-
gio nel poligono di Tongchang-
ri, utilizzato per i test missilistici.
Questa brutta novità può au-
mentare la paura nella Corea del
Sud, dove proprio ieri si celebra-
va il secondo anniversario del
bombardamento nordcoreano
sull’isola di Yeonpyeong, un vero
atto di guerra che provocò la
morte di due militari e due citta-
dini sudcoreani. Lungi dal voler
rassicurare il vicino, ufficiali nor-
dcoreani hanno dichiarato ieri di
essere dispiaciuti per l’accaduto.
Dispiaciuti di non “aver spedito
sul fondo” la piccola isola.
GIORGIO BASTIANI
L’OPINIONE delle Libertà
SABATO 24 NOVEMBRE 2012
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