Furia islamica contro gli Stati Uniti

Scene da rivoluzione islamica, in Libia ed Egitto. Nella notte scoppia l’insurrezione a Bengasi, contro il consolato statunitense. E il bilancio è drammatico: 4 morti, fra cui anche l’ambasciatore in Libia, Christopher Stevens, morto soffocato durante lo scontro, secondo il ministero dell’Interno libico. Il giorno prima, al Cairo, proprio in occasione dell’11mo anniversario dell’11 settembre, una folla di islamici aveva attaccato l’ambasciata americana, strappato la bandiera e issato il vessillo nero della Jihad. In entrambi i casi si è trattato di manifestazioni violente, ben organizzate e condotte da uomini armati. Colpi di arma da fuoco sono stati esplosi al Cairo, durante l’assalto all’ambasciata. Fra gli organizzatori della “manifestazione” c’era anche il fratello di Al Zawahiri, l’ideologo di Al Qaeda.

A Bengasi è stata una vera e propria battaglia: lanciagranate, raffiche di mitra e lancio di bombe a mano dentro le finestre della sede diplomatica. In Libia la guerra civile è finita da quasi un anno, ma i gruppi islamici si tengono le armi. Gli assalitori dell’ambasciata sono stati organizzati da un gruppo autoproclamatosi “Sostenitori della legge coranica”. L’uccisione di un ambasciatore statunitense all’estero è praticamente un atto di guerra. Che cosa ha causato tanta violenza? Come si è arrivati fino a questo punto? Secondo gli organizzatori delle proteste, la folla ha reagito spontaneamente alla pubblicazione, su YouTube di un “film” americano su Maometto.

Non si tratta di un vero e proprio film, ma di un video amatoriale, dall’umorismo amaro. Promosso da un egiziano copto espatriato negli Usa e prodotto da un certo Sam Bacile, il video è stato notato da pochi. Tranne che dagli integralisti islamici. Che hanno subito colto l’occasione per lanciare una nuova campagna globale contro la “blasfemia” occidentale, analoga a quella, a suo tempo, contro le vignette su Maometto. Ma si tratta di vero furore religioso o è un pretesto? Molti elementi suggeriscono che si tratti solo di un pretesto. Perché le manifestazioni erano dirette contro le sedi diplomatiche americane e sono scattate proprio in occasione dell’anniversario dell’11 settembre.

È chiaro che si tratta di un esplicito avvertimento degli integralisti islamici agli Stati Uniti e ai nuovi governi locali sostenuti da Washington. In Egitto si tratta di un test importante per il presidente Mohammed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, ma finora relativamente pragmatico e vicino all’Occidente nella sua gestione della politica. Il Cairo, proprio in questi giorni, sta negoziando con gli Usa un nuovo prestito da 1 miliardo di dollari. Gli integralisti più integralisti del presidente lo vogliono mettere alla prova, per vedere da che parte sta. In Libia è un test ancora più difficile per l’instabile governo democratico succeduto a Gheddafi.

L’ambasciatore ucciso, Christopher Stevens, era il rappresentante americano nel Consiglio Nazionale di Transizione, durante la rivoluzione contro Gheddafi. I fondamentalisti islamici libici hanno dimostrato, in modo estremo, di non essergli affatto grati. La palla passa ora agli Stati Uniti. Sarà Washington a decidere che tipo di rapporti tenere con questi nuovi governi, nati da una Primavera Araba che Obama ha sempre apertamente sostenuto, in Libia anche con un (costoso) intervento militare.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:42