«Come raccontare l’America agli italiani»

Oggi siamo particolarmente lieti di incontrare chi del raccontare l’America a noi Italiani ha fatto il suo lavoro, che svolge quotidianamente aiutandoci a capire meglio le stelle e le strisce, ormai da diversi anni. Maurizio Molinari è certamente tra i migliori commentatori italiani delle vicende americane da quando esistono gli inviati all’estero. È un privilegio fargli qualche domanda, ringraziandolo per la sua disponibilità.

Dott. Molinari, quando inizia la sua carriera da inviato negli Stati Uniti?

Il 14 gennaio 2001, quando arrivo da Bruxelles dove ero corrispondente dall’Unione Europea. Di quell’arrivo ricordo le polemiche infuocate per George W. Bush che aveva vinto la Casa Bianca grazie al verdetto della Corte Suprema di Washington sulla riconta in Florida e un’imponente nevicata che paralizzò Manhattan.

Come è cambiata l’America da quel momento ad oggi?

L’America, e soprattutto New York, cambia in continuazione. Non vi sono mai due giorni uguali uno di seguito all’altro. È una nazione in costante movimento. Allora il motore era il conservatorismo compassionevole di George W. Bush, oggi è la responsabilità della cittadinanza di Barack Obama. Ciò che conta non è il colore politico ma l’innovazione continua di un popolo che crede nel rinnovamento come forma di crescita collettiva. Ponderando tale tendenza con il costante richiamo alle radici comuni nella Costituzione e della Dichiarazione di Indipendenza. È un approccio che porta, i singoli come la collettività, a rifondare in continuazione la nazione. In base alla convinzione che l’Unione - cioè l’Unione fra gli Stati - può essere sempre perfezionata, come diceva Abramo Lincoln. Si può sempre migliorare.

Lei svolge ottimamente il compito di raccontare agli italiani gli Usa. È difficile? Affascinante?

Serve grande umiltà per raccontare l’America. Bisogna anzitutto ammettere di non sapere perché si incontrano, in continuazione, persone portatori di nozioni, storie, invenzioni, culture di cui siamo ignari o quasi. Al tempo stesso però l’America si descrive in maniera didascalica. Dagli articoli dei giornali con i paragrafi di “background” al presidente degli Stati Uniti che quando dice “Parigi” aggiunge “la capitale della Francia” fino agli scienziati del dna capaci di farsi comprendere dagli adolescenti, ciò che prevale è un approccio divulgativo alle nozioni che consente di imparare in fretta qualsiasi argomento, anche il più ostico. Probabilmente è conseguenza del fatto di essere una nazione di immigrati, dove la necessità di farsi comprendere da tutti obbliga ad un’estrema chiarezza in ogni tipo di comunicazione.

Le tecnologie sempre più diffuse permettono oggi di informare e informarsi con strumenti sempre più puntuali, anche in mobilità. L’Italia potrebbe beneficiare di tali strumenti - visto che ha tanto da promuovere, anche negli Stati Uniti?

Le nuove tecnologie sono l’orizzonte e l’avvincente surf delle nuove generazioni. Tutto nasce dal wi-fi, per navigare ad alta velocità sul web. Più la velocità è rapida, più opportunità vi sono. Per questo Obama pensa ad un wi-fi gratuito sull’intero territorio nazionale. Credo che anche le nazioni europee, a cominciare dall’Italia, debbano iniziare a valutare la creazione di reti wi-fi universali e gratuite per tutti. La differenza di accesso a Internet ha conseguenze immediate sulla formazione del sapere come sulla creazione di posti di lavori. Se due ricercatori lavorano su uno stesso tema e l’uno ha accetto ad un wi-fi veloce mentre l’altro deve affrontare lunghe attese per un semplice download è facile immaginare chi avrà opportunità maggiori di successo.

Lei ha pubblicato “Gli Italiani di New York”. Chi sono i nostri connazionali che vivono nella Grande Mela?

A New York convivono tante e diverse identità italiane, ognuna delle quali è congelata in un diverso tempo storico. Ci sono gli italiani discendenti dei primi immigrati, oggi pienamente integrati e legati alla terra d’origine solo dal sapore di particolari piatti. Vi sono gli italiani arrivati nel secondo dopoguerra, che temono di avere figli che non conoscono la lingua di Dante. E vi sono gli italiani arrivati negli ultimi 20 anni, uguali in tutto e per tutti a chi vive e risiede nello Stivale. E ancora: ognuno di questi gruppo è a sua volta diviso per origine regionale, abitudini alimentari, professioni, hobby. New York è l’unica città al mondo dove tante e così differenti versioni dell’identità italiane si ritrovano a vivere nello stesso spazio. Inclusa quella di chi italiano non è: come gli studenti asiatici o afroamericani che affollano i corsi di italianistica negli atenei di New York sperando di impossessarsi di qualche aspetto delle nostre identità, storia, cultura o arte.

Di quali istanze si fanno portatori questi diversi gruppi di italiani di New York?

Ognuno di loro pone all’Italia questioni difficili, a volta laceranti, con le quali dobbiamo fare i conti. Gli italiani discendenti dei primi immigrati, arrivati fra la fine del XIX e inizio del XX secolo, rimproverano all’Italia di aver abbandonato i loro antenati: di averli obbligati a fuggire da miseria e povertà, di non essersi interessata di loro una volta raggiunta l’America e di aver poi ignorato i sacrifici affrontanti nel Nuovo Mondo. Gli italiani immigrati nel secondo dopoguerra chiedono all’Italia più aiuti, soprattutto fondi, per consentire a figli e nipoti di studiare l’italiano, ovvero la lingua nella quale riconoscono la propria identità. E poi ci sono gli italiani arrivati negli ultimi 20 anni: professionisti, ricercatori, docenti che hanno avuto successo in America e rimproverano al Paese d’origine di non avergli saputo offrire le opportunità che cercavano. Ma c’è anche un altro tipo di immigrati recenti, i clandestini...

Ci sono anche emigrati illegali di origine italiana?

Certo, si tratta quasi sempre di giovani, arrivati in cerca di lavoro con un visto turistico che scade dopo 90 giorni. Scelgono di restare per fare i camerieri o i muratori e così diventano clandestini senza neanche accorgersene. Per la polizia di New York gli italiani in queste condizioni sono migliaia. Il loro timore è essere fermati, identificati e deportati. Anche perché c’è chi sta creando delle famiglie. Quando hanno un serio problema di salute esitano ad andare in ospedale, quando hanno un lutto o una gioia famigliare in Italia non possono esserne parte. Si tratta di vite difficili. Alcuni di loro cercano consiglio nelle Chiese cattoliche di Brooklyn, altri pagano cifre esorbitanti per sposare un cittadino americano per riuscire a legalizzarsi. E’ una piaga italiana della quale in Italia si discute raramente. Forse perché l’interrogativo più amato che ci pongono è perché sono obbligati ad andare altrove per avere un semplice stipendio.

Lei era a New York l’11 settembre del 2001 (un capitolo del libro è proprio dedicato agli italiani di Ground Zero): a distanza di anni, come raccontare all’Italia quello che avvenne, e in particolare la reazione degli americani?

L’11 settembre 2001 Al Qaeda attaccò gli Stati Uniti lanciando contro Washington e New York quattro aerei passeggeri trasformati in missili. Vi furono quasi tremila vittime nel più sanguinoso attacco mai compiuto contro il territorio continentale degli Stati Uniti. L’America prima si unì attorno alle vittime, soccorse i sopravvissuti e promise la ricostruzione delle città ferite. Poi arrivò da parte dell’amministrazione Bush la reazione con la scelta di inseguire ovunque Al Qaeda, affrontando un conflitto contro l’ideologia jihadista che l’amministrazione Obama sta continuando. Gli strumenti militari scelti da Bush e Obama sono diversi: l’uno ha puntato su interventi militari tradizionali, in Afghanistan e Iraq, mentre l’altro crede nella guerra segreta, fatta di droni, truppe speciali e operazioni di intelligence. Trattandosi di un’ideologia, la Jihad è difficile da debellare: sconfitta in Afghanistan, braccata in Pakistan e Yemen ora si è trasferita nel Sahel, punta a insediarsi in Maghreb e Siria. Ma ciò che più conta è che l’11 settembre è stato uno spartiacque: prima di quella data le democrazie avevano solo subito gli attenti dei jihadisti, dopo è iniziata la reazione.

Quali sono a suo avviso le differenze nel mondo del giornalismo tra Italia e Stati Uniti?

Sono differenze simili a quelle che si ritrovano in altri settori dell’economia e, più in generale, della società. In America ciò che prevale è la logistica, la preparazione e la competizione mentre in Italia abbiamo più creatività, ingegno, gusto del bello. Siamo due nazioni apparentemente assai simili ma in realtà molto diverse. E dovremmo, entrambe, fare di più per conoscerci meglio.

Ci può fare degli esempi concreti di differenze fra i due Paesi?

Hanno entrambi a vedere con l’identità collettiva. In Italia troppo spesso la dietrologia e il complottismo influenzano il dibattito pubblico. Anche in America c’è la dietrologia ma resta un fenomeno limitato, ristretto, di minoranza. Credo che a fare la differenza sia la divulgazione di idee e nozioni: più è limitata, più la dietrologia fiorisce. L’altro esempio che mi viene in mente sono i carabinieri, indicati da ogni militare americano come un modello di efficienza per loro inarrivabile. Il motivo è che si tratta di un corpo militare capace di svolgere mansioni civili e dunque adatto a confrontarsi con le sfide degli "Stati falliti" dove la necessità è spesso creare infrastrutture, garantire sicurezza, portare stabilità. I carabinieri esprimono la duttilità che l’America vorrebbe avere.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:29