Un quinto della Cina<br/>risulta avvelenato

Un quinto del suolo della Repubblica Popolare Cinese è contaminato e il suo utilizzo per fini agricoli potrebbe essere completamente compromesso. Le sostanze inquinanti di cui si parla sono cadmio, nichel e arsenico, più altri inquinanti. Siccome si sta parlando di un territorio immenso, quale è la Cina continentale, si parla di inquinamento di un'area pari a quasi due milioni di chilometri quadrati. La notizia è ancor più scioccante se si considera la sua fonte: il governo cinese. È infatti il Ministero della Protezione Ambientale di Pechino ad aver diffuso questi dati. Lo ha fatto perché il regime popolare cinese è intenzionato a lanciare un nuovo “piano” contro l’inquinamento, a seguito di proteste sempre più intense ed estese dell’opinione pubblica cinese e dopo che il problema dell’inquinamento della capitale Pechino (dove si rischia la vita solo passeggiando per strada) sta diventando uno scandalo mondiale.

L’avvelenamento di sei milioni e mezzo di km quadrati di territorio impone qualche riflessione, al di là dello scandalo momentaneo. In primo luogo è rivelatore degli effetti collaterali di un mito: quello della rapida crescita industriale della Cina. Spesso tendiamo a considerarlo come il fenomeno economico di successo più spettacolare del XXI Secolo, senza considerarne la vera natura. A questa constatazione, però, possono seguire delle considerazioni totalmente errate. I sostenitori della teoria della decrescita felice, infatti, puntano il dito sugli effetti collaterali della crescita cinese per suggerire un passo indietro nello sviluppo, in senso lato. È una teoria che si fa “esclusivista” nel momento in cui afferma: “Noi, mondo industrializzato, ci siamo sviluppati, abbiamo inquinato abbastanza, se un altro popolo grande come quello cinese accede allo sviluppo, la terra non sarà in grado di sostenerlo”. E dunque si mira alla conservazione del privilegio che abbiamo acquisito nel mondo industriale, relegando le sue periferie in via di sviluppo a un ruolo agricolo, nel nome della “sostenibilità”. I più coerenti, non solo pregano i cinesi (e agli indiani, ai brasiliani e a tutti coloro che si stanno industrializzando) di non svilupparsi più, ma chiedono anche al mondo industrializzato di de-industrializzarsi, sempre nel nome della “sostenibilità” e della preservazione dell’eco-sistema. C’è una semplice constatazione che impedisce di credere razionalmente a queste tesi: il mondo industrializzato, dal Giappone all’Europa, passando per gli Stati Uniti, è infinitamente meno inquinato rispetto alla Cina, che pure è agli albori della sua crescita. Come mai?

Non è solo una questione di numeri. Non si può giungere alla conclusione che la Cina sia più inquinata perché i cinesi sono il triplo degli abitanti dell’Europa. Nello spazio ex sovietico, infatti, gli abitanti sono meno della metà di quelli europei. Eppure lo spazio ex sovietico resta il più devastato del mondo, specialmente in Asia Centrale. Mar Nero, Mar Caspio, Lago di Aral e Lago Baikal (gli ultimi due si trovano in aree fra le meno densamente popolate dell’Eurasia) sono e restano fra le acque più inquinate del pianeta. Dopo la loro secessione dall’Urss e soprattutto dopo l’ingresso nell’Unione Europea, intere nazioni quali la Lituania, la Lettonia e l’Estonia hanno dovuto letteralmente ricostruire la loro natura, dopo un processo che i governi locali chiamano “ecocidio”, subito durante gli anni sovietici. E ci sono moltissime analogie fra l’inquinamento nell’ex Urss e quello nell’attuale Cina: nessun riguardo per gli scarichi tossici nelle acque, nessun riguardo per l’emissione di inquinanti nell’atmosfera, anche in aree densamente popolate, poco o nessun riguardo per la protesta di chi, l’inquinamento, lo deve subire a rischio della propria vita.

Il fatto che i nostri movimenti ecologisti siano tutti o quasi tutti i matrice marxista impedisce di vedere l’immensa differenza che c’è fra l’inquinamento in un Paese capitalista e quello in un Paese socialista. Se le proteste contro l’Ilva di Taranto giungono alla conclusione che “il profitto distrugge l’ambiente”, possiamo toccare con mano questa miopia. La realtà cinese dimostra proprio il contrario: dove non si ragiona in termini di profitto e soprattutto dove non c’è proprietà privata, dove tutto è pubblico e nessun proprietario può protestare per i danni che sta subendo, lì inizia la devastazione dell’ambiente. La Cina si sta lentamente riformando in senso capitalista, ma è ancora ben lontana dall’aver raggiunto questo obiettivo. La proprietà sulla terra è ancora sconosciuta dal diritto della Repubblica Popolare: i contadini sono in affitto, possono vivere e lavorare sul loro appezzamento finché il regime glielo consente, ma possono essere sfrattati in ogni momento. Il Partito comunista rimane monopolista dello sviluppo industriale (oltre che della vita politica) e censura ogni critica. Le proteste contadine, che scoppiano ogni anno a decine di migliaia in tutta la Cina, sono l’unica forma, illegale e violenta, di espressione dell’opinione pubblica. Solo negli ultimi anni, e con molti limiti, si sta cercando di introdurre un concetto giuridico di proprietà privata, ma la Cina rimane tutt’ora un sistema collettivista. Il mito secondo cui esiste un “capitalismo cinese” fa sì che si attribuisca al libero mercato la responsabilità dell’inquinamento cinese. Ma è, appunto, un mito. La Cina è ancora comunista. Quindi continua ad essere immensamente devastata dall’inquinamento. E non ci sarà alcun piano, gestito in modo verticistico dal Partito, capace di risolvere questo problema. Pechino può emanare le direttive e queste possono essere disattese da ambiziosi politici-industriali locali, famelici di carriera e arricchimento personale. Solo la piena introduzione della proprietà privata potrebbe ripulire la Cina. Ma non ci sarebbe più una Repubblica Popolare, per come l’abbiamo finora conosciuta.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:04