Retorica polarizzante: i rischi di Erdogan

L’esito elettorale delle amministrative di domenica 30 marzo ha rivelato una netta affermazione del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan, forte del 44 per cento di voti ottenuto nonostante le accuse di corruzione, di nepotismo e di autoritarismo. Vi è stato un netto incremento di consensi rispetto alle amministrative del 2009, quando l’Akp ottenne il 39 per cento, ma un 7 per cento in meno rispetto alle politiche del 2011. Più di un motivo ci spinge a confrontare il risultato delle elezioni locali con quello delle politiche generali del 2011 e non con quello delle precedenti amministrative del 2009.

Un primo motivo è rappresentato dal fatto che l’intera campagna elettorale è stata condotta dal primo ministro come un’elezione politica nazionale in cui l’unico tema fisso e prevalente era la fiducia o meno alla sua persona, alla sua leadership e al suo governo. Anzi, vi è da dire che il primo ministro è andato oltre, paragonando la sua campagna elettorale ad una “guerra di liberazione” contro nemici interni ed esterni. Egli ha tenuto personalmente circa tre comizi al giorno per tre mesi in tutte le 81 province. Inoltre, da tutti i sondaggi effettuati sulle motivazioni del voto all’Akp emergeva che gli elettori dichiaravano di votare il partito al governo perché intendevano esprimere fiducia e sostegno al primo ministro, piuttosto che ai candidati locali.

Erdoğan, nel suo quarto “discorso dal balcone” della sede del suo partito ad Ankara, ha presentato l’ottima performance elettorale come una rivincita riguardo alle molteplici sfide e cospirazioni messe in atto nei suoi confronti, e ha incentrato il suo discorso parlando di “stato parallelo”, definizione da lui usata per indicare il movimento Hizmet del predicatore islamico Fethullah Gülen, fino a pochi mesi fa suo alleato e adesso diventato suo acerrimo nemico perché colpevole, a suo dire, di aver ordito un complotto nei suoi confronti, orchestrando l’inchiesta per corruzione e concussione che si è abbattuta sul suo governo e sulla sua persona. Dal 17 dicembre scorso, da quando la procura di Istanbul ha reso pubblica la vasta inchiesta per corruzione che ha coinvolto ministri in carica, decine di registrazioni di telefonate compromettenti per Erdoğan e la sua famiglia sono state pubblicate su YouTube. Dal balcone Erdoğan ha salutato il suo popolo ponendo la mano destra sul petto e con la mano sinistra alzata ha fatto il segno delle quattro dita della “Rabia”, diventato il simbolo dei Fratelli Musulmani, che si oppongono al golpe militare in Egitto. “Entreremo nei loro covi. Non consegneremo la nazione alla Pennsylvania o alle sue pericolose frange. Coloro che hanno tradito la nazione, la pagheranno!”, ha tuonato con esplicita allusione a Fethullah Gülen, che vive in Pennsylvania in esilio volontario dal 1999.

Si è trattato di un vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti del suo ex alleato: una guerra iniziata alcuni mesi fa, quando il primo ministro ha fatto approvare dal parlamento una legge che impone la chiusura delle dershane, le scuole di preparazione agli esami per l’accesso ai licei e alle università gestite per il 20 per cento dalle cemaat (comunità religiose) di Fethullah Gülen, con l’intento di far venir meno una fetta consistente di finanziamento da cui trae beneficio il movimento Hizmet. Gülen, sin dagli anni Novanta, ha costruito una vasta rete di scuole, di licei e perfino università e cerca di promuovere l’adozione della tecnologia occidentale abbinata alla morale islamica. La rete si è diffusa anche in Asia centrale e nei Balcani e possiede suoi mezzi di comunicazione, come il quotidiano “Zaman” (Tempo) e il canale televisivo “Samanyolu” (Via Lattea) e altri media, assieme a banche e ospedali. Gülen è stato un sostenitore dell’Akp sin dall’ascesa al potere di tale formazione politica e grazie alla sua predicazione di un Islam moderato, tollerante e di dialogo ha rappresentato per essa un’ottima immagine da spendere sui mercati attirando quindi la fiducia di capitali stranieri. La loro alleanza, tra il 2012 e il 2010, è servita a cementare un interesse comune: quello di ridurre il potere dei militari ledendone l’ingerenza nella sfera politica. Ben presto però è entrata in crisi l’alleanza tra i due potenti attori. Gülen è stato molto critico nei confronti del governo per l’episodio della nave turca Mavi Marmara nel 2010, che produsse la rottura con lo Stato di Israele, definendo una provocazione il tentativo, messo in atto dall’equipaggio della Freedom Flotilla, di aggirare l’embargo a cui è tuttora sottoposta Gaza. Il predicatore islamico ha incominciato ad accusare Erdoğan di distaccarsi dai princìpi democratici e dall’Unione europea e di avere intrapreso dunque una svolta autoritaria, finendo col criticare anche la brutale repressione delle rivolte del parco di Gezi di İstanbul della primavera 2013.

Il risultato uscito dalle urne il 30 marzo scorso ha mostrato che il network di Fethullah Gülen, descritto come segreto ed estremamente potente, non costituisce in alcun modo un fattore determinante negli equilibri elettorali; riteniamo che esso inasprirà la durezza dell’azione repressiva del primo ministro nei riguardi dell’opposizione. C’è da aspettarsi un’ondata di arresti contro i sostenitori di Gülen e un giro di vite sulle grandi aziende dei media e della società civile controllate dalla cemaat. Da alcuni giorni sono in corso ispezioni fiscali all’azienda Kaynak Holding, considerata la cassa del movimento Gülen.

La vittoria elettorale dell’Akp annuncia due pericoli specifici per il futuro della democrazia in Turchia. Il primo è la persistente e intensa polarizzazione del panorama politico alla vigilia di altri due cruciali appuntamenti elettorali: le elezioni presidenziali del 10 agosto prossimo e quello delle elezioni parlamentari nel primo semestre del 2015. L’altro pericolo è quello della crescente disaffezione riguardo al processo di integrazione nell’Unione europea. La libertà di espressione è seriamente in pericolo, prova ne è la recente legge che limita l’utilizzo dei social network e che ha prodotto la chiusura di Twitter e di YouTube. Questi tristi traguardi sono stati raggiunti negli ultimi quattro anni in cui il primo ministro ha operato una costante erosione di quel minimo di Stato di diritto che egli stesso aveva contribuito a costruire fino ad allora. sta portando sempre più polarizzazione nel panorama politico turco.

Recep Tayyip Erdoğan ha indubbiamente vinto anche questa battaglia, ma rischia di perdere la guerra. Rischia di essere ricordato come colui che ha portato ulteriore polarizzazione. Per il cittadino medio che ha sostenuto Erdoğan tra il 2003 e il 2010, l’Akp era l’agente di riconciliazione tra musulmani e non, tra conservatorismo e democrazia, tra “ottomanesimo” e valori repubblicani, tra Islam e secolarismo. Oggi egli è riuscito invece a dividere il Paese tra i suoi sostenitori fanatici e i suoi nemici altrettanto fanatici, ha fallito nel compito storico più arduo, quello di traghettare la Turchia nel pantheon delle democrazie più avanzate, unendo le diverse anime del Paese in un grande progetto democratico che garantisca diritti e libertà per tutti i cittadini turchi che vogliano un futuro migliore. Grave è la responsabilità dell’Unione Europea che, con la sua miope chiusura e col blocco del negoziato di adesione, non ha offerto un solido ancoraggio al progetto riformatore della Turchia.

(*) Direttore della rivista “Diritto e Libertà”, giornalista e analista politico, esperto di problematiche politiche e sociali della Turchia; collaboratore di Radio Radicale. Vive dal giugno del 2010 ad Ankara.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:47