Il volo radente   di Vladimir Putin

Quando, nella serata di giovedì 17 luglio, Vladimir Putin ha avuto la conferma che l’aereo MH17 della Malaysia Airlines, in volo a diecimila metri di altezza, da Amsterdam a Kuala Lumpur con 298 passeggeri a bordo, era stato abbattuto dai guerriglieri separatisti filorussi sopra il cielo di Grabovo, nell’Ucraina orientale, nelle sale austere del Cremlino sono riemersi vecchi fantasmi; il pensiero è andato subito a trentuno anni prima, al mattino del 1 settembre del 1983, quando un Mig sovietico abbatté un Boeing 747 della Korean Air Lines, numero 007, con 269 persone a bordo, partito da New York e diretto a Seoul. L’incidente venne prima smentito dalle autorità sovietiche che poi si affrettarono a giustificare l’azione con il sospetto che l’aereo stesse conducendo attività di spionaggio sopra la penisola di Kamčatka, dove forte era la presenza militare russa. Successive indagini internazionali rivelarono che l’aereo sudcoreano aveva accidentalmente deviato la rotta di volo, per un errore di programmazione degli apparati di bordo, sconfinando effettivamente nello spazio aereo sovietico, ma che la reazione dell’aeronautica di Mosca era stata sproporzionata e non si era attenuta alla procedura internazionale, come poi confermò dopo anni lo stesso pilota dell’aereo intercettore che aveva sparato i missili.

Per il regime sovietico dell’epoca, l’incidente fu un drammatico punto di svolta; il generale Nikolai Ogarkov, potentissimo capo di Stato Maggiore delle Forze armate, venne costretto alle dimissioni; la vecchia guardia comunista del Cremlino, già debole per i risultati drammatici della disastrosa campagna in Afghanistan e per la sempre più difficile crisi economica, con una stagnazione profonda iniziata ai tempi di Leonid Breznev, vide accelerata la sua agonia politica. I segretari generali del Partito Comunista che subentrarono a Breznev, già molto anziani e malati, l’ex capo del Kgb Yuri Andropov, dal novembre del 1982 al febbraio 1984, e poi Konstantin Chernenko, dal febbraio 1984 al marzo 1985, non furono capaci di nulla se non preparare l'ascesa al potere del “giovane” Mikhail Gorbaciov e quindi del nuovo corso della perestrojka e della glasnost e il conseguente disfacimento dell’Unione Sovietica.

Era forse anche per questo che nel messaggio televisivo registrato giovedì notte, dopo l’abbattimento dell’aereo malese, sul viso di Putin, di solito senza emozioni, si potevano leggere preoccupazione, inquietudine e rabbia: preoccupazione per i riflessi che l’incidente potrebbe avere all’interno della Russia, dove cresce il malcontento di ampie fasce della popolazione che accusa il governo di Putin di incompetenza nella gestione dell’economia, malagiustizia e inefficienza nella manutenzione delle infrastrutture pubbliche (e l’incidente di pochi giorni fa nella metropolitana di Mosca viene citato come prova); inquietudine per le reazioni internazionali, con sempre più gente in Europa e Stati Uniti che sollecita la “mano dura” verso Mosca con l’adozione di sanzioni; rabbia verso Kiev per aver originato il conflitto con i filo russi ma soprattutto verso quei miliziani separatisti che in nome della appartenenza alla “Madre Russia” hanno preso le armi contro gli Ucraini e hanno abbattuto con un missile russo, per errore, un Boeing malese con 298 poveri inermi, costringendo Putin ad un imbarazzantissima situazione internazionale.

Il problema è che però i ribelli sono una creazione russa; l’annessione della Crimea da parte di Mosca ha infatti alimentato bande di separatisti anche nella parte orientale dell’Ucraina; i media russi li sostengono a spada tratta e i servizi di Mosca gli forniscono intelligence ed equipaggiamenti militari, tra cui il missile Buk che ha abbattuto l’aereo malese. La sfortunata circostanza che l’aereo sia stato abbattuto per errore non fa che peggiorare la cosa: il Cremlino ha consegnato missili sofisticati ad un gruppo di ubriachi teste calde, incapaci di identificare un aereo civile ed incolpevole che vola sulle loro teste. Putin nutriva probabilmente forti dubbi sulla capacità dei leader della cosiddetta “Repubblica popolare di Donetsk” già a maggio, quando gli aveva chiesto di rimandare il referendum sull'indipendenza: il voto si è tenuto lo stesso e Putin ha rifiutato di riconoscere i risultati. La strategia dello zar del Cremlino sembra prediligere ora infatti la federalizzazione dell’Ucraina, piuttosto che il distacco delle regioni russofone; questo gli garantisce di mantenere la presa su un Paese che ha fatto, con l’Europa, una chiara scelta di campo anti-russa e fa invece infuriare Kiev che la considera una pericolosa interferenza nei suoi affari interni.

Fino all’abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines, Vladimir Putin ha guadagnato una reputazione di grande stratega internazionale. Non ha mai perso una guerra; ha represso i separatisti ceceni nel sud della Russia; ha sconfitto in pochi giorni, nell’estate del 2008, l'esercito della Georgia, equipaggiato dagli americani, e continua ad occupare due regioni di quel paese. Ha protetto il suo alleato siriano, Bashar Al Assad, anche calcolando che Obama avrebbe esitato a farsi coinvolgere in un'altra guerra in Medio Oriente. All'inizio della crisi ucraina, ha pianificato un’operazione lampo di conquista della penisola di Crimea, inviando un contingente di soldati russi senza insegne nazionali sulle loro uniformi. Finora le sue mosse sono state vincenti. Putin è un analista freddo e prudente che non ama rischi e che utilizza la forza solo quando è sicuro di una facile vittoria, come in Crimea o in Georgia. Ecco perché l’abbattimento dell’aereo malese gli ha creato non poca inquietudine e lo ha messo all’angolo.

Un aiuto ad uscire dallo stallo, paradossalmente, può venirgli proprio dall’occidente, che è chiamato a svolgere un ruolo cruciale ma al tempo stesso molto delicato. America ed Europa devono mettere pressione a Putin, senza però forzargli troppo le mani. Per carattere Putin detesta essere sotto pressione e tende a reagire male a tutte le critiche. L’Unione Europea in verità non ha fino ad ora mostrato i muscoli contro Mosca e si è limitata a congelare i beni e le proprietà in Europa di 72 cittadini russi ed ucraini ritenuti responsabili per l'occupazione della Crimea e della rivolta in Ucraina orientale.

È ora allo studio l’adozione da parte di Bruxelles di sanzioni economiche contro imprese e settori dell’economia russa: il dibattito però ha già evidenziato i “nervi scoperti” di tanti paesi europei che hanno strette relazioni economiche con Mosca. In un momento in cui l'Europa fa difficoltà ad emergere da una profonda recessione, appare, per molti, complicato adottare misure restrittive verso uno dei principali partner: Germania, Italia e molti altri paesi si affidano a Russia per le forniture di gas. A Londra gli investimenti più importanti sono russi. La Francia ha un contratto di 1,2 miliardi di euro per la costruzione di due portaelicotteri per la marina russa. Le sanzioni rischierebbero dunque di provocare un insidiosissimo effetto bumerang sull’economia del Vecchio Continente. Tutti in Europa hanno ancora voglia di fare affari con Putin. Anche per gli Stati Uniti, malgrado qualche falco nostalgico dei tempi del confronto con l’Urss, la Russia rappresenta una imprescindibile necessità: il ruolo che Mosca può esercitare sulla Siria e sull’Iran costringe Washington a non calcare troppo la mano con Putin.

Lo scenario dei prossimi giorni sembra poter essere quindi già scritto. Da una parte, Putin potrà salvare la faccia prendendo seccamente le distanze dai ribelli separatisti di Donetsk; dall’altra l'Occidente potrà pretendere da Mosca un impegno reale a colloqui costruttivi con l'Ucraina, in vista di una soluzione pacifica tra le parti in conflitto. La costituzione russa consente a Putin di restare presidente del suo paese per i prossimi 10 anni e il mondo non può permettersi un decennio di nuova guerra fredda.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:45