L’emigrazione in Usa   e il ruolo della fede

Emigrazione e religione sono due parole che spesso, e a ragione, sono accostate l’una all’altra. E la storia dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti non fa eccezione a questa regola. La religione fu parte fondamentale degli inizi della vita nel nuovo mondo da parte dei nostri emigrati, e tale è rimasta anche per coloro che sono arrivati in seguito. Ha da poco compiuto 50 anni il Cser (Centro studi emigrazione Roma) un vero punto di riferimento per analizzare le dinamiche migratorie, un tempo solo in uscita dal nostro Paese, oggi anche in entrata. A dirigerlo da un paio d’anni c’è Padre René Manenti, che l’emigrazione italiana negli Usa la conosce bene perché ha trascorso nove anni a New York.

Padre, quali sono le attività del Cser?

Il Centro studi nacque dall’intuizione di alcuni nostri confratelli scalabriniani. Ci occupiamo di aiutare gli emigranti, non solo dal punto di vista religioso, ma anche pratico e sociale. Alcuni di noi capirono che a fianco all’azione era necessaria la riflessione sui fenomeni migratori. E così diedero vita al Cser. In seguito ne nacquero altri a New York, nelle Filippine, a Basilea, a Parigi, a San Paolo del Brasile e a Buenos Aires. Con il Centro di Roma hanno collaborato, nel corso di questi 50 anni, insigni studiosi di primissima qualità: un nome su tutti quello di Gianfausto Rosoli, forse il più grande studioso di emigrazione del nostro Paese. I nostri centri studiano l’emigrazione verso i luoghi in cui si trovano, con un focus su quella italiana ma senza tralasciare gli altri gruppi etnici. I numerosi studi e ricerche svolti in questi cinquant’anni sono, insieme a tantissimo altro materiale, parte della nostra biblioteca, che annovera circa 50mila pubblicazioni: la grande maggioranza di esse è in Italiano, c’è una piccola parte in francese o in portoghese o in spagnolo, e poi qualche anno fa abbiamo assorbito i 15mila volumi della biblioteca del Center for migration studies (Cms) di Staten Island, che si è trasferito a Manhattan ed è oggi diretto da un avvocato, Donald M. Kerwin Jr. Un’altra importante attività da noi curata è quella della nostra rivista trimestrale, “Studi Emigrazione”, che con l’ultima uscita del 2015 arriverà al numero 200 e che, come il centro studi, si è occupata di emigrazione dapprima con riferimento a quella italiana all’estero, e oggi anche molto dei flussi migratori che da fuori arrivano dal Paese. Abbiamo poi il sito internet “Roma intercultura” (www.roma-intercultura.it) che raccoglie e diffonde notizie legate all’immigrazione e a eventi legati all’intreccio di culture. La quarta “gamba” del nostro centro è relativa alle attività che portiamo avanti: tavole rotonde, progetti, interventi sia su eventi organizzati qui da noi, che altrove. Più o meno, tutti i nostri centri sparsi per il mondo hanno questa struttura, a New York non hanno più la biblioteca (ma mantengono un archivio storico), però in compenso la loro rivista “Imr - International migration review” è uno dei punti di riferimento mondiali sul tema dell’emigrazione.

Prima di dirigere il Cser hai trascorso nove anni a New York. Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Quali sono le cose che ti hanno maggiormente colpito?

Ho lasciato un pezzo di cuore a New York. Sono stati nove anni molto belli, durante i quali ho studiato sociologia, facendo sia un master e poi un dottorato di ricerca alla Fordham University nel Bronx, mentre lavoravo con gli italiani soprattutto nel Queens, a Whitestone e ad Astoria. Ci tornerò per un mese adesso, ad agosto, e per me è un po’ come tornare a casa, come quando vado a Brescia, dove sono nato e cresciuto: e non solo per la città, che mi piace molto, ma soprattutto per le persone che ho conosciuto, con cui si è instaurato un rapporto fortissimo, certamente facilitato dal mio ruolo di sacerdote. E mi sono reso conto che stare lì mi ha insegnato a vedere le cose anche con la prospettiva americana, così diversa da quella italiana: col risultato che si è in grado di poter comprendere meglio la realtà sia perché se ne capisce l’approccio, ma anche perché allo stesso tempo la si può osservare anche con uno sguardo molto differente. Io andrò alla parrocchia di San Luca (Saint Luke Church) a Whitestone. Lì so che la comunità grazie al parroco, Monsignor John Tosi, ha raccolto nel corso di un paio di anni più di 2 milioni di dollari per sistemare la chiesa, la canonica e un’altra struttura attigua. La chiesa è stata inaugurata insieme al vescovo della diocesi di Brooklyn/Queens, Monsignor Nicholas Di Marzio, che ha chiaramente origini italiane (della Campania), anch’egli grande esperto di emigrazione. Questo per dire che la comunità cattolica di quella zona, nella quale molti sono gli italoamericani, è molto legata alla sua chiesa. La zona è benestante, quindi testimonia quanto gli italiani abbiano avuto successo, dopo che i primi nostri connazionali avevano vissuto a lungo in zone meno ricche.

La religione ha avuto un ruolo fondamentale per gli italiani emigrati in America: fu il primo fattore di unione tra di loro, di raccordo con il Paese che avevano lasciato, di celebrazione della propria storia e cultura.

A Whitestone, ad esempio, una grande percentuale di italoamericani proviene dalla Campania o dalla Sicilia e ci sono anche diversi club ai quali essi fanno riferimento. Ogni domenica, alle 9, c’è la messa in italiano e poi ci sono varie altre attività come feste, processioni e il gruppo di Padre Pio insieme alla parrocchia di Saint Mel. Quest’anno ad agosto si prevede una grande affluenza per la festa, perché arriverà una copia del quadro originale della Madonna Addolorata del Romitello vicino a Borgetto, un piccolo paese siciliano dal quale moltissimi italoamericani di Whitestone e di Astoria sono originari. È importante comprendere cosa possa voler dire per questi italiani avere la “visita” dell’immagine della Madonna del paese dal quale loro o i loro familiari partirono per andare in America: si risvegliano sentimenti, emozioni, fede, affetti, tradizioni popolari, ricordi. È una eccezionale occasione di partecipazione e di affermazione della propria cultura e della propria appartenenza: si ripete ogni anno, comunque, ma quest’anno con la visita del quadro sarà ancora più importante. All’inizio dell’emigrazione di massa gli italiani si concentrarono tutti nelle stesse zone. Quindi le parrocchie finirono per essere popolate dai nostri connazionali, in qualche occasione quasi esclusivamente. Gli italiani portarono un modo di vivere la religione un po’ diverso da quello degli irlandesi, anche loro cattolici, che arrivarono prima degli italiani. E a volte ci fu attrito. Quando gli italiani iniziarono ad avere successo, si spostarono in altre zone, allentando la pressione demografica sulle Little Italy: per cui si sparsero in diverse località, distribuendosi su più parrocchie, e limitando molto il numero di quelle nelle quali erano in percentuale così preponderante. Ne sono rimaste alcune, ma non tante come un tempo. C’è da dire anche che l’emigrazione italiana negli Stati Uniti ha visto in grandissima parte coinvolte persone provenienti da cittadine medio-piccole (più del sud che del nord) a volte paesini e meno frequentemente dalle grandi città. L’esperienza migrante, poi, porta a costruire un’identità in parte in memoria (con quello che lascia) e in parte in contrapposizione (con quello che trova): questo ha spinto gli italiani a tenere ben strette le proprie tradizioni religiose, trapiantandole nella loro nuova realtà ma rimanendo abituati a fare riferimento al proprio rapporto con Dio, rimasto costante nel passaggio tra il loro vecchio e il loro nuovo mondo.

Tra coloro che aiutarono maggiormente gli italiani emigrati nell’America protestante, gli Scalabriniani furono tra i più attivi.

Monsignor Giovanni Battista Scalabrini era il Vescovo di Piacenza, un uomo che sommava in sé un profondo sentimento pastorale con una grande attenzione al sociale. Durante le visite nel territorio della sua diocesi, si accorse che in moltissimi luoghi la popolazione era diminuita, perché in molti erano partiti per emigrare all’estero. Iniziò ad interessarsi al fenomeno migratorio e nel 1887 fondò questa congregazione per il servizio e l’accompagnamento degli emigrati Italiani all’estero. Scalabrini era molto amico di Monsignor Bonomelli, Vescovo di Cremona, anch’egli sensibile a questo tema: decisero di “dividersi i compiti”, e così Bonomelli si interessò maggiormente agli emigrati italiani in Europa, mentre Scalabrini si dedicò più a coloro che andarono più lontano. Dopo la seconda guerra mondiale l’ordine dei Bonomelliani fu soppresso e gli Scalabriniani iniziarono a occuparsi anche degli emigrati italiani nel Vecchio Continente. Col tempo il nostro servizio si è esteso in modo naturale a tutti i migranti. Scalabrini fu il primo a proporre che il Vaticano si dotasse di un ufficio che si occupasse del fenomeno migratorio. Oggi non siamo tantissimi rispetto alle grandi congregazioni: siamo in settecento, sparsi in tutto il mondo, al servizio dei migranti di qualsiasi provenienza e religione. Siamo stati tra i primi a dare assistenza agli emigrati italiani in America, e siamo l’unica congregazione con la specifica finalità di aiuto ai migranti, insieme con una nata se non sbaglio in Polonia, ma che è limitata all’emigrazione polacca. Siamo stati fra i primi, ma non gli unici: anche i Salesiani si occuparono dei problemi dell’emigrazione, e poi ovviamente le Cabriniane, l’ordine fondato da Francesca Cabrini, la prima santa americana, che era di origini italiane e che collaborò con Monsignor Scalabrini.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:47