L’assenza di verità   sui due nostri marò

Sul caso dei sottufficiali della Brigata Marina “San Marco” l’unica apparente novità in questo periodo di ferie “estive” è che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha telefonato all’omologo indiano Narendra Modi che lo ha trattato con distacco e sufficienza, sintetizzabile in un gergale “ragazzino, lasciaci lavorare” perché la questione è di nostra esclusiva competenza giurisdizionale e non tolleriamo interferenze. O meglio, riecheggiando il marchese del Grillo, perché “io sono indiano e voi siete italiani di pastafrolla”.

In questo contesto la cronaca fa registrare la “suadente” proposta di Marco Luca Comellini, che si qualifica come segretario del Partito per la tutela dei diritti di militari e forze di polizia (Pdm), di coinvolgere nel caso, considerando i nostri due militari prigionieri di guerra, il Comitato internazionale della Croce Rossa, già attivato dal Pdm tramite la sezione italiana. Comellini lamenta che la questione non è stata presa in considerazione neppur dai due diretti interessati. Italia e India non sono in guerra, semmai si trovano contrapposti di fronte a una controversia risolvibile con il ricorso a organi internazionali terzi, come richiesto anche da Cocer Marina, e non certo con l’atteggiamento prono e supino di fronte la protervia indiana, di cui l’ultima presa di posizione di Modi è una maniera elegante per trattare a pesci in faccia tutta la nazione, non solo il “guasconcello” che rappresenta l’Italia.

Inoltre, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone si trovano ospiti nella nostra sede diplomatica di New Delhi, che non è certo un campo di concentramento, nonostante qualche problema per stendere il bucato; sono in contatto con i familiari, che hanno loro più volte fatto visita. Chi si è reso responsabile di questo silente conflitto in armi, sinora ignorato? La risposta ovvia sarebbe l’India che prima con false comunicazioni che ai sensi della “Convenzione per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima” devono venire considerate reato da penalmente perseguire e non astuzia di cui vantarsi, come ha invece fatto la Guardia costiera del Kerala, che in seguito con la coercizione (eufemisticamente scorta) di mezzi navali e aerei ha “convinto” il mercantile battente bandiera italiana Enrica Lexie ad entrare nelle sue acque territoriali e attraccare in un porto indiano per poi catturare con la forza delle armi i due sottufficiali della Brigata Marina “San Marco”.

Con questo atto, nell’ottica che li vedrebbe prigionieri di guerra, l’India avrebbe compiuto una aggressione militare che, ai sensi dell’articolo 5 dello statuto della Nato, configurerebbe una risposta militare di tutta l’Alleanza. È questo un pericoloso approccio che abbiamo da sempre respinto, rivendicando invece una forte presa di posizione dell’Italia, con un ricorso ad organismi internazionali, quali il tribunale del Mare o il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, come peraltro ha tentato di fare, venendo placcato da “volontà superiori contrarie”, l’allora ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata che si dimise proprio per enfatizzare questa sua divergenza di vedute e di strategia di fondo. Altri si sono assunti gravi responsabilità sulle quali, a vicenda conclusa, sarebbe auspicabile fare luce con una Commissione parlamentare di inchiesta.

Qualcuno, e gli indiani lo farebbero immediatamente, potrebbe replicare che l’atto di guerra l’hanno compiuto i nostri due militari aprendo il fuoco. A parte il fatto che sembra che il fuoco di dissuasione da bordo del mercantile italiano e l’evento in cui hanno trovato la morte i due indiani imbarcati su un natante impegnato in presunte attività di pesca siano fatti distinti, distanti nel tempo e nello spazio, nel senso che si ipotizza, argomentando, che i due indiani potrebbero essere deceduti quindici ore prima del fuoco di dissuasione aperto da bordo della Enrica Lexie nei confronti di altro vagamente somigliante natante al St. Anthony. Questo scenario spiegherebbe come sia stata possibile una ipotizzata con forti elementi indiziari manipolazione del presunto incidente da parte dello Stato federato del Kerala, da cui l’Autorità federale non sa come uscire dopo avere avocato il caso, tanto che sinora i due militari sono trattenuti in India, altra violazione dei Diritti umani, senza che nei loro confronti sia stato formalizzato alcun capo di accusa.

Cosa significherebbe dare agli indiani questa chiave di lettura in chiave di atto di guerra? Se non c’è, come è impossibile che ci sia, una dichiarazione di guerra antecedente al presunto incidente da parte dell’Italia nei confronti dell’India, i nostri due militari potrebbero venire processati come “franchi tiratori” e magari contro di loro riproporre la pena di morte come taluni “ambienti” indiani già intendevano fare richiamandosi alla “Sua Act”, la loro legge antiterrorismo. Dopo l’8 settembre 1943 un certo numero di nostri militari, in maggioranza piloti abbattuti, vennero passati per le armi con tale accusa dai tedeschi che pure erano stati i primi ad attaccare le nostre truppe a seguito della notizia della firma dell’armistizio. Fu questo a convincere di malavoglia il Governo di Brindisi, che credeva ancora in una possibile vittoria dell’Asse, a dichiarare il 13 ottobre 1943 guerra alla Germania a fianco degli ex nemici, dando l’avvio alla cosiddetta cobelligeranza. Certo non è quello da noi paventato il senso della proposta di chi pensa che il coinvolgimento della Croce Rossa possa essere una “astuzia” per uscire fuori dalle sabbie mobili, alla stregua dell’altrettanto pericolosa tesi, di chi riteneva di salvare capra e cavoli parlando di uno “spiattellamento” dei proietti, che sarebbero rimbalzati sul pelo dell’acqua, senza neppure tentare di dimostrare la possibilità teorica che ciò potesse realmente avvenire e sotto quali condizioni.

La Sua Act (legge indiana contro il terrorismo), ribaltando il carico della prova, avrebbe messo i due militari a rischio di condanna a morte qualora, incriminati secondo tale legge, non avessero prima dimostrato e poi fatto materialmente vedere alla Corte che i proiettili delle armi in dotazione “rimpallano” sul pelo dell’acqua come palle da tennis sul campo di gara. Sfido chiunque a farmelo vedere. Non poi è neppure la prima volta che ci troviamo in rotta di collisione con il cosiddetto “Partito a tutela diritti di militari e forze di polizia” che il 21 aprile 2012 ha presentato una interrogazione, firmata da tutti i parlamentari della compagine Radicale allora in carica, fatti eleggere (nominati) da Walter Veltroni nelle liste del Partito Democratico, fortemente ostile nei nostri confronti, sia pure non citandoci direttamente, per avere il nostro Gruppo, grazie al coraggioso sostegno dell’allora (certe iniziative si pagano) deputato di Forza Italia, Settimo Nizzi, organizzato il 16 aprile 2012 presso la Sala della Mercede della Camera dei deputati un seminario che ruotava sulla illustrazione della analisi tecnica del perito forense Luigi Di Stefano, che metteva in evidenza come il fuoco sotto cui erano periti i due indiani fosse incompatibile con le armi in dotazione ai nostri, oltre che con quello che in gergo si indica come la scena del crimine. Le traiettorie appaiono complanari e non dall’alto verso il basso.

Per fortuna che queste genere di “astute” iniziative partono da posizioni “amiche” e di tutela; addirittura da appartenenti alla stessa Forza armata, un ufficiale di Marina come si è qualificato, l’autore della citata ipotesi del rimbalzo in acqua dei proietti. Che dire al riguardo? Citando Carlo Goldoni: “Dagli amici mi guardi Iddio, perché dai nemici mi ci guardo io”.

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:44