Ecco come cambia il Regno (dis)Unito

giovedì 11 settembre 2014


Tra una settimana si va alle urne in Scozia per il referendum per l’indipendenza. È un voto che potrebbe cambiare per sempre la geografia del Regno Unito. Fino a questa settimana non c’era alcun allarme particolare a Londra. La consultazione referendaria per l’indipendenza era stata addirittura incoraggiata dal governo Cameron, per mostrare agli indipendentisti scozzesi quanto fossero marginali. Ma gli ultimi sondaggi hanno fatto rizzare i capelli in testa a tutti i partiti unionisti. La proiezione di lunedì mostrava addirittura un leggero sorpasso degli indipendentisti sugli unionisti. La media dei rilevamenti di ieri, dava le due parti testa a testa: 39% agli unionisti e 38% ai separatisti. E non è tutto: la tendenza è chiaramente favorevole a questi ultimi, considerando che guadagnano punti al diminuire degli indecisi. Più gli scozzesi si fanno un’idea chiara di quello per cui andranno a votare, più optano per l’indipendenza, insomma. E c’è anche da considerare il fattore psicologico: per un intervistato da un sondaggista è più difficile esprimersi a favore di un voto di rottura, dunque quel 38%, una volta nel segreto dell’urna, potrebbe risultare molto superiore.

Perché la causa dell’indipendenza ha preso così piede in una delle nazioni più benestanti del mondo? Le ragioni storiche sono del tutto secondario. Il problema dell’annessione, conclusa definitivamente nella metà del XVIII Secolo, non si poneva se non come memoria identitaria e orgoglio culturale. Non è per vendicare la battaglia persa a Culloden Moore nel 1746 che il 38% o più degli scozzesi vuole riconquistare l’indipendenza. Piuttosto, la Scozia è tradizionalmente socialista, esprime maggioranze solide ai governi dei Laburisti. Il combinato disposto di crisi economica e governo liberal-conservatore, con la sua politica di tagli alla spesa pubblica, hanno innescato la crescita di un movimento separatista, che c’è sempre stato, ma non si è mai manifestato come maggioritario. In più c’è la speranza, manifestata più volte dal leader scozzese Alex Salmond, che la Scozia possa campare alla grande, anche da sola, grazie alle risorse petrolifere. Un po’ come la vicina Norvegia, che, grazie al suo petrolio, riesce a tenere in piedi uno dei sistemi di welfare più ricchi d’Europa. Il Mare del Nord è un tesoro ancora da scoprire. Secondo analisi attendibili, potrebbero essere scoperte e sfruttate più di 100 riserve entro i prossimi 30 anni. L’indipendentismo a cui assistiamo ora è dunque una creatura recente, degli ultimi anni.

C’è anche un altro motivo del successo indipendentista. Un’eventuale vittoria del Sì al referendum, non cambierebbe gli assetti istituzionali in modo traumatico. Sarebbe un distacco facile e senza traumi, non verrebbe destituita la regina Elisabetta II, che continuerebbe ad essere regnante sui troni di Scozia e Inghilterra. Non verrebbe spezzato il Commonwealth, di cui Edimburgo sarebbe ancora membro a tutti gli effetti. Non ci sarebbe alcuno strappo con la Nato: a parte l’opposizione alla presenza di armi nucleari su suolo scozzese, Salmond si è detto disponibile a restare nell’Alleanza e a mantenere tutte le sue basi aeree e navali nel Mare del Nord. Non ci sono particolari problemi neppure con la Ue: la Scozia indipendente potrebbe essere riammessa a pieno titolo. Il neopresidente della Commissione, Jean Claude Juncker, infatti, mantiene una posizione rigorosamente neutrale sugli esiti del referendum, come ha ribadito anche ieri. Insomma, i cittadini scozzesi sanno di andare a votare per una svolta, ma non per una rivoluzione. Sono avvertiti che una secessione potrebbe provocare un grosso scossone in borsa, negli investimenti e nella finanza, ma non una catastrofe economica.

Una volta realizzato che può perdere la Scozia, fra una settimana e non nel lungo periodo (o come ipotesi di scuola), non solo il governo Cameron, ma anche l’opposizione laburista guidata da Ed Miliband si sono mobilitati all’unisono, con una campagna di comizi ed eventi, per scongiurare i concittadini a restare. Tutti e tre i grandi partiti britannici hanno ribadito che, anche in caso di vittoria degli unionisti, vi sarebbero comunque ulteriori riforme di devoluzione, con la concessione di un’autonomia fiscale alla Scozia pressoché completa.

Al di là della geografia, dunque, la politica britannica è già cambiata. Ha già preso atto che la Scozia è una realtà distinta. D’ora in avanti dovranno essere gli scozzesi a pagare per il loro welfare, mentre i conservatori britannici, liberi dal laburismo scozzese, avranno più margini di manovra per compiere riforme liberiste. E forse anche per uscire dall’Ue, come chiedono gli euroscettici dell’Ukip, i più coerenti e intransigenti fra i conservatori. Questo potrebbe essere l’esito più incredibile: avere una Scozia dentro l’Europa e un’Inghilterra fuori. Forse gli scozzesi non hanno ancora realizzato di votare per l’indipendenza dei loro cugini inglesi: dall’Unione Europea.


di Stefano Magni