Scozia, referendum:   lezioni di politica

Gli scozzesi hanno deciso. Con un voto referendario che non lascia dubbi, la Scozia resterà nel Regno Unito. Dalle Highlands ci giungono lezioni di profilo politico che faremmo bene, tutti noi europei, ad apprendere. Prima lezione. Il referendum che avrebbe messo in discussione l’integrità territoriale del Regno Unito è stato concesso dalle autorità centrali londinesi senza particolari drammi.

Anzi, in quest’occasione l’apparato statuale britannico ha mostrato di essere profondamente permeato di quello spirito di libertà e di rispetto per la volontà popolare, senza il quale la forma democratica di governo resta un simulacro ad uso della retorica del Potere. Un “ludo cartaceo” come avrebbe detto qualcuno, tempo addietro. D’altro canto, sappiamo bene che non si è sinceramente liberali se si teme il voto degli elettori. Dovrebbero ricordarlo le nostre classi dominanti, spesso refrattarie ad accettare i responsi del corpo elettorale. Dovrebbe ricordarlo anche il nostro Presidente della Repubblica, la cui antica storia di comunista militante non è stata sempre declinata con la vocazione alla libera espressione popolare. Seconda lezione.

Parlare di autodeterminazione dei popoli si può. Non è un tabù. Non è un’infamia sostenere che siano le comunità locali e non poteri metafisici a decidere con chi stare. Ne consegue che se le autorità britanniche, custodi della “Magna Charta Libertatum”, hanno ritenuto legittima l’aspirazione degli scozzesi a esprimersi sulla propria indipendenza, vuol dire che la regola dell’autodeterminazione deve valere “erga omnes”. Non la si può applicare a corrente alterna. Va bene per la Scozia, va bene per il Kosovo, va bene per la Cecoslovacchia ma non va bene per la Catalogna. E perché? Se l’autodeterminazione è un principio universale allora deve star bene anche quando a esercitare il diritto di scelta siano gli abitanti della Crimea o delle regioni del Donbass. Parlare, in quel caso, di attentato all’integrità territoriale dell’Ucraina è solo una gigantesca ipocrisia.

Essa serve a nascondere lo spregiudicato meccanismo di convenienza che regola i rapporti tra gli Stati, in un perfetto spirito orwelliano per il quale: “ Tutti gli uomini sono uguali, ma ci sono uomini che sono più uguali degli altri”. Terza lezione. Gli scozzesi hanno ragionato e, sebbene fossero fondate le ragioni storiche e ideali dell’ indipendenza, hanno optato per una soluzione pragmatica. Essi non hanno ritenuto di indebolire il peso specifico che il Regno Unito ha conquistato rispetto agli altri interlocutori statuali, dentro e fuori il contesto dell’Unione Europea. In realtà, il ragionamento svolto dai sostenitori dell’unità dello Stato britannico può essere esteso a tutte le altre realtà territoriali europee che sono in particolare fibrillazione.

La Scozia è senza dubbio una nazione. Tuttavia, ciò non comporta che debba essere necessariamente uno Stato autonomo. Averlo desiderato avrebbe potuto trasformarsi in un errore imperdonabile. Il processo democratico, nell’ambito dell’Unione europea, in questo tempo storico è fortemente indebolito, perché appaiono più deboli molti degli Stati nazionali che la compongono. Cionondimeno, la soluzione vincente non può essere quella di tornare allo spirito delle “piccole patrie”. Se così fosse, significherebbe dare ancora più forza a un nucleo di potere radicalizzato al centro del sistema comunitario. Al vertice delle istituzioni europee non si è compiuto il percorso d’integrazione politica. E’ convincimento diffuso che attualmente l’egemonia appartenga alle “governance” che sono le oligarchie tecnocratiche, divenute classe dominante per “partenogenesi”. La volontà sovrana dei popoli dell’Unione, nell’architettura istituzionale comunitaria, resta un elemento simbolico, scarsamente incidente nelle dinamiche decisionali prodotte dal sistema.

Ne consegue che l’ulteriore frammentazione delle entità statuali finirebbe con il favorire il radicamento di una forma prepolitica di “supergoverno” continentale, depurato del fattore di contrappeso costituito dal controllo democratico. La storia insegna che piccoli Stati non avrebbero alcuna possibilità di determinare la politica comunitaria, sia nei suoi aspetti macroeconomici, sia in quelli propriamente strategici. Essi dovrebbero comunque dipendere totalmente da una realtà sovraordinata che, in deficit di democrazia, finirebbe con l’assumere una configurazione “imperiale”. Non siamo già oggi sprofondati abbastanza in una sorta di “Quarto Reich”, senza averlo apertamente e democraticamente deciso? Gli scozzesi hanno compreso che “meno Gran Bretagna” non avrebbe significato “più libertà” ma “più questa Europa”, quindi ”più Germania”. Quarta lezione.

Le spinte indipendentiste sono favorite dalla crisi degli Stati nazionali, schiacciati dal peso di una progressiva limitazione di sovranità, a cui il processo d’integrazione europea li costringe. L’Italia non fa eccezione. In questa chiave prospettica taluni commentatori hanno visto un collegamento tra l’indipendentismo scozzese e il movimentismo politico della Lega Nord. L’esito referendario in Scozia avrebbe, quindi, annichilito le speranze dei leghisti italiani. Facciamo rispettosamente osservare che sono fuori strada. Se davvero pensano che la Lega abbia subito un colpo da questa vicenda, vuol dire che non hanno capito granché della visione politica di Matteo Salvini. Ma questa è un’altra storia. Ne riparleremo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:51