La guerra parallela   combattuta da Israele

Nel giorno in cui i Paesi della coalizione anti-Isis, a guida statunitense, hanno esteso i raid aerei anche al territorio siriano (con l’informale consenso del regime di Bashar al Assad, per altro), Israele continua a combattere la sua guerra parallela.

Due sono le azioni degne di nota delle forze armate israeliane, entrambe nella giornata di ieri. La prima è l’uccisione di due terroristi, Marwan Kawasame e Amer Abu Aysha, in uno scontro a fuoco, a Hebron, col le teste di cuoio israeliane. La seconda è l’abbattimento di un aereo militare siriano sul Golan.

Quanto alla prima operazione, i media si erano quasi del tutto dimenticati di questi due uomini, così come delle loro vittime. Si trattava, invece, di bersagli importanti: erano i principali ricercati del rapimento e dell’assassinio di Gilad Shaer, Eyal Yifrah e Naftali Frenkel, tre ragazzini ebrei, studenti di una scuola rabbinica, ritrovati a fine giugno dopo 20 giorni di vene ricerche. Quel fatto di sangue, avvenuto nei pressi di Hebron, ha segnato l’inizio dell’escalation che, di lì a una settimana, avrebbe poi fatto scoppiare l’ultimo conflitto a Gaza. Il movimento islamista palestinese Hamas, che inizialmente aveva negato ogni coinvolgimento nella vicenda del rapimento, solo dopo il conflitto a Gaza, il 22 agosto scorso, uno dei suoi leader, Saleh Arouri ha ammesso la responsabilità del gruppo. Marwan Kawasame e Amer Abu Aysha erano suoi membri e la leadership del movimento islamico, pur non essendo al corrente della loro azione (questa, almeno, è la versione, di Arouri) l’ha considerata una “operazione eroica”, volta a “dare inizio a una nuova insurrezione”. In pratica, Hamas ha deliberatamente provocato la guerra e se ne vanta, questo è il succo del discorso. La risposta israeliana, con l’uccisione dei due rapitori, è un nuovo colpo inferto a Hamas. Un colpo secco, che non darà adito ad alcun processo, né ad alcuna trattativa per lo scambio di prigionieri.

Quanto alla seconda azione, è ancora da appurare se l’aereo siriano, un Su-27 di fabbricazione russa, sia entrato nello spazio aereo israeliano per errore o per condurre una ricognizione. I due piloti dell’Su-27 si sono salvati lanciandosi con il paracadute, dopo che un missile Patriot israeliano lo ha centrato e abbattuto. L’abbattimento è stato confermato sia da fonti siriane che israeliane. L’episodio è stato celebrato come una vittoria dai ribelli siriani, che hanno subito postato il video su YouTube, ripreso (male) dalle vicine alture, dalla parte siriana del confine.

Il problema grave di questo episodio è che si inserisce nella più vasta guerra contro l’Isis, che, proprio da ieri, viene combattuta anche nello spazio aereo siriano. Il regime di Assad, che ha informalmente acconsentito ai raid aerei alleati sul suo territorio, contro le postazioni dell’Isis (contro cui combatte), può cambiare idea dopo uno scontro a fuoco con Israele, il nemico di sempre? Inoltre: nella guerra fra i ribelli (da cui è nato l’Isis quale costola più estremista) e Assad, Israele da che parte si schiera. Indubbiamente l’incidente di frontiera di ieri complicherà le cose, soprattutto da un punto di vista diplomatico. Assad, se mai volesse ripetere l’esperimento (fallito) di Saddam Hussein, potrebbe anche aumentare attacchi e provocazioni contro Israele, per attirarlo nel conflitto. La qual cosa provocherebbe lo scioglimento della coalizione anti-Isis, in cui è forte la componente araba-islamica. Ma, al momento, non è nel suo interesse farlo. Il regime è saldamente al potere, non rischia l’annientamento, non ha interesse a cercare uno scontro finale, disperato e generale. E i raid aerei statunitensi e alleati gli stanno facendo solo il favore di eliminare un po’ dei suoi nemici più agguerriti e pericolosi. Più difficile comprendere la posizione di Israele. Finora, fra ribelli e Assad non si è schierato. Ha condotto un gran lavoro di intelligence (parte del quale è stato messo a disposizione degli Usa, per i loro raid contro l’Isis) e si è limitato a distruggere ciò che poteva essere pericoloso per la sua popolazione, eliminando, con raid mirati, i convogli di missili siriani diretti a Hezbollah, in Libano.

Lo Stato ebraico non è al centro dell’uragano jihadista che sta coinvolgendo i Paesi arabi del Medio Oriente, ma questa volta si trova in un’area di margine. Pericolosa, come sempre, ma esclusa dal principale conflitto in corso, che è essenzialmente una guerra religiosa fra musulmani (e relativa persecuzione di minoranze non musulmane). Il governo Netanyahu vuole restare fuori da questa burrasca, colpendo di volta in volta chi rappresenta una minaccia diretta. In primo luogo Hamas, che è sempre stato sponsorizzato dal regime siriano, poi punendo gli sconfinamenti di Assad e infine facilitando, con l’intelligence, la guerra aerea contro l’Isis in Siria e Iraq.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:46