Eredità rivoluzionaria   della Thatcher

Alla periferia sudorientale della Cina, sta montando una protesta che potrebbe diventare la nuova Tienanmen. Hong Kong non accetta più i diktat cinesi. Decine di migliaia di persone sono in piazza, da domenica e la polizia non è ancora riuscita a farle sgombrare, nonostante l’ampio uso di lacrimogeni, cariche e trasferimenti coatti di gruppi di manifestanti. I feriti si contano a decine. E nonostante tutto, scioperi, serrate e sit-in contro il regime cinese vanno avanti imperterriti. La città-Stato, che rappresenta un centesimo della popolazione della gigantesca Repubblica Popolare Cinese, ma vanta la crescita economica più rapida del mondo, sta diventando una spina democratica nel fianco di un grosso corpo totalitario.

La protesta nasce da questa estate, quando, dal 20 al 29 giugno, si è svolto un referendum, ovviamente solo simbolico, per decidere l’elezione diretta del governatore. Quando Hong Kong era una colonia britannica, dunque fino al 1997, il governatore era di nomina inglese. Dal momento in cui la città è tornata in Cina, il governatore è stato eletto da un consiglio ristretto di membri dell’élite finanziaria e politica locale, selezionata dalla Cina. Il referendum, a cui ha partecipato circa 1 milione di cittadini, chiedeva il suffragio universale. Non si trattava di una proposta campata per aria. Questa transizione dall’oligarchia alla democrazia è prevista nella Basic Law, redatta dal 1985 al 1990 da un comitato misto di Cina e Hong Kong e approvata dagli inglesi. L’ultimo lascito britannico alla ex colonia è proprio questa promessa di democrazia futura, prevista per il 2017 (20 anni esatti dal ritiro).

I cittadini di Hong Kong l’aspettavano e non hanno rinunciato a questa prospettiva. Per cui, dopo il referendum (mai riconosciuto da Pechino) si aspettavano almeno un passo avanti da parte del governo centrale. E invece niente. La bozza della nuova legge di Hong Kong, presentata dal regime di Pechino all’inizio di questo mese, prevede ancora una elezione del governatore a suffragio limitato. Molto limitato. Si tratta, infatti, di un voto riservato a 1200 membri di un comitato, scelti da Pechino e dal governo locale. A questo punto, per gli attivisti democratici e i movimenti cattolici ispirati dal cardinal Zen, è stato troppo. Dopo alcune manifestazioni silenziose e una vasta mobilitazione, domenica è scattata la repressione nel quartiere finanziario.

L’esito della crisi è ancora indeterminabile. Però è bene vedere quale sia la radice più remota di questo braccio di ferro, per capire qual è, realmente, la posta in gioco di una crisi solo apparentemente periferica e temporanea. Si tratta infatti di una sfida a lungo termine da Margaret Thatcher, la premier che, nel 1984, concordò con Pechino il ritorno di Hong Kong alla Cina.

A cosa mirava Margaret Thatcher, 30 anni fa, con la “Dichiarazione Congiunta”? Come mai, nonostante il suo risaputo anticomunismo, ha ceduto alle richieste di Pechino? Non si trattava solo di un mero calcolo dei rapporti di forze, con una piccola Hong Kong indifendibile di fronte al miliardo di cinesi continentali. Si trattava anche di una speranza. Speranza nella libertà, prima di tutto. Nel 1984, la Cina, sotto Deng Xiao Ping, aveva appena avviato un coraggioso percorso riformatore, adottando gradualmente un sistema economico di mercato. Allora si pensava che questo percorso fosse continuato anche con una riforma democratica. In questo contesto, la Thatcher pensava che Hong Kong (che lei definì una “una comunità vitale e prospera che unisce il talento cinese, l’amministrazione britannica, libertà, giustizia e una nascente democrazia”) potesse essere di esempio per una Cina che cambiava. Intervistata dalla Cnn nel 1997 (al momento del passaggio di consegne) l’ormai ex premier britannica, dichiarava che «Naturalmente, siamo tutti preoccupati. “Uno Stato, due sistemi” fu un’idea di Deng Xiao-ping. La vera domanda è: lasceranno (i cinesi, ndr) veramente al popolo di Hong Kong la possibilità di godere pienamente della vita e della libertà di una nascente democrazia?». Nella stessa intervista, la Thatcher ammetteva: «Quando (Deng, ndr) parlava di “due sistemi” non pensava affatto alla democrazia, non gli passava nemmeno per la testa. Fu molto chiaro, in merito. Ci disse che Hong Kong avrebbe conservato il nostro sistema capitalista e la nostra libertà economica, gli ingredienti che hanno prodotto prosperità. E questo lo sapeva, perché aveva girato nel mondo e aveva visto quanto il sistema comunista avesse prodotto solo miseria. Sapeva anche che ci fosse qualcosa di veramente magnifico nella legge britannica. E così ci disse che avremmo potuto conservare questi due elementi».

Ora bisogna solo vedere se prevarrà il modello occidentale, contagiando il resto della Cina. O se il colosso totalitario schiaccerà la formica liberale. La partita è appena cominciata.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:45