Il pericolo della Libia   poco in considerazione

Concentrando tutta l’attenzione sulla avanzata dell’Isis in Siria e in Iraq, la comunità internazionale sembra guardare con distacco la Libia, dove la situazione politica si è ormai deteriorata e non si intravede all’orizzonte prossimo un miglioramento.

Il conflitto in corso fra le milizie nazionaliste, quelle di Zintan a Tripoli e quelle dell’ex generale Khalifa Haftar a Bengasi contro le forze islamiste, in particolare di Ansar al-Sharia alleate alle milizie di Misurata, sta seminando morti e distruzione in gran parte del paese. A questo si aggiungono i venti di secessione di alcune grandi regioni, i dissidi fra le tribù, la criminalità comune e quella organizzata, i trafficanti di uomini, droga e soprattutto armi, i continui scioperi, le proteste delle minoranze etniche e persino la presenza di bande di appartenenti al vecchio regime nel sud del paese. I deputati eletti in giugno sono stati costretti a fuggire a Tobruk, dove si riuniscono su un traghetto greco, mentre a Tripoli gli islamisti ex partecipanti dell’Assemblea costituente transitoria hanno creato un nuovo parlamento; nelle ultime settimane il numero degli jihadisti libici si è fortemente ingrossato con il ritorno dalla Siria di combattenti provenienti dalle file dell’Isis e del Fronte al-Nusra.

Di fronte a questa crisi la comunità internazionale ha risposto assai timidamente; le Nazioni Unite hanno favorito la ripresa del dialogo tra alcune parti in conflitto e proprio per sostenere questo tentativo si sono recati nei giorni scorsi a Tripoli il Segretario dell’Onu, Ban Ki-Moon e il ministro degli Esteri e prossimo capo della diplomazia europea, Federica Mogherini. La Libia, ha affermato la Mogherini, "è sull'orlo di una catastrofe. E' tempo di leader coraggiosi e responsabili. La soluzione del conflitto che rischia di affondare il Paese, non è quella militare, ma quella del dialogo politico".

La responsabilità di quanto sta succedendo in Libia ricade certamente su quei Paesi che tre anni fa lanciarono un attacco militare che spazzò via il regime di Muammar Gheddafi con una rivoluzione cruenta e drammatica che ridusse il paese ad un cumulo di macerie e riaprì antiche ferite tra clan e gruppi etnici che hanno fatto piombare la Libia nel caos. Certo, alcuni dei governi che erano in carica e che furono tra i principali attori nella guerra contro il Colonnello non ci sono più; non è più all’Eliseo Nicolas Sarkozy, che armò, secondo molti analisti, la mano dei killer di Gheddafi; Berlusconi, ex grande sponsor in Europa di Gheddafi, non è più a Palazzo Chigi; l’Emiro Hamad Al Thani, che finanziò e armò gran parte degli insorti contro il regime di Tripoli, ha abdicato in favore del figlio Sceicco Tamim e a Washington, Barak Obama è al minimo storico dei consensi popolari. Ma le conseguenze di quella guerra rischiano di ricadere molto pericolosamente sui governi di oggi.

La scomparsa drammatica di Gheddafi e del suo regime ha favorito l'ascesa degli islamisti. Molti Libici si sentono abbandonati dalle nazioni occidentali e lasciati in balia di quei poteri regionali che avevano contribuito con armi e denaro a rovesciare Gheddafi; sembra un paradosso ma la fotografia della Libia di oggi porta a credere che il solo obiettivo di affossare il vecchio regime fosse quello di portare gli islamisti a governare la Libia. Non c'è bisogno di ripetere che quattro decenni di governo di Gheddafi avevano aiutato assai poco allo sviluppo del paese, della società civile e delle istituzioni; neppure l’esercito regolare o le forze di sicurezza erano adeguate, come hanno dimostrato i combattimenti. Si salvavano solo le guardie del corpo di Gheddafi e i servizi segreti e la retorica della repubblica popolare e dei comitati popolari, tanto cara al Colonnello, serviva solo per sostenere il regime, nella convinzione tipica dei tiranni che ogni sviluppo della società rappresenta un rischio per la sopravvivenza della dittatura.

Le azioni della Nato per rovesciare Gheddafi sono apparse agli occhi dei suoi oppositori, soprattutto agli islamisti, come l’occasione d’oro per mettere solide basi per le future strategie politiche. I Fratelli musulmani, che in Libia non avevano forte seguito, si sono alleati sul campo con le milizie violente di Misurata, nemici storici di Gheddafi e del suo clan, e con l’apporto finanziario e militare dei sostenitori stranieri, primi tra tutti Qatar e Turchia, hanno conquistato spazi fino ad allora impensabili.

La popolazione libica, ormai piegata ed esausta da anni di sofferenze, inizia a paragonare le atrocità commesse dai gruppi di militanti islamici e dai loro alleati delle Brigate di Misurata con quelli commessi dal regime di Gheddafi durante la rivolta; il presente a Bengasi e nella periferia di Tripoli è a loro giudizio più scuro e più sanguinoso del pur tragico passato.

Come in altri teatri, dall’Iraq all’Afghanistan, anche in Libia, terminate le operazioni e rimosso il dittatore, le potenze occidentali hanno abbandonato il campo senza costruire solide basi statali. Ne hanno approfittato le forze più estremiste e vicine agli islamisti che hanno anche goduto di flussi continui di denaro e armi dall’estero: la Libia è divenuta, senza autorità centrale, frammentata dal tribalismo e nella quasi completa illegalità, una base terrorista perfetta, una sorta di magnete per gli islamisti e un punto di transito per chi vuole unirsi al Califfato islamico attraverso la Turchia, financo una piattaforma di lancio per gli attacchi terroristi contro la Tunisia, l'Algeria e l'Egitto.

Se la situazione non dovesse migliorare e se la comunità internazionale restasse inattiva, il risultato finale sarebbe che un Paese vasto con ricche riserve di petrolio, a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste, sarebbe sul punto di implodere, diventando uno Stato fallito, con derive estremiste e terreno fertile per terroristi, più pericoloso della Somalia. L'unica possibile via d'uscita per la Libia è quella di avere un governo di unità nazionale, sostenuto dalle Nazioni Unite e dall’Occidente, precluso agli islamisti, che possa iniziare a ricostruire il Paese. L’obiettivo però non sarà facile e l’azione diplomatica e il tentativo di dialogo potrebbero non essere sufficienti: la guerra in corso è iniziata quando i Fratelli Musulmani e i loro alleati hanno perso la maggioranza alle elezioni di giugno, segno che la politica da sola, in quel Paese non basta.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:44