La questione di Hong Kong presenta aspetti ed implicazioni che vanno ben oltre la protesta contingente di queste settimane e, probabilmente, coinvolge i futuri assetti interni, di conseguenza internazionale, della Cina continentale, la Repubblica Popolare Cinese non più comunista in senso stretto, almeno sotto il profilo dell’economia, ma ancora regime autoritario e dittatoriale sotto il profilo politico e delle libertà civili.

Hong Kong per Pechino ha rappresentato e rappresenta una sorta di “virus democratico” che rischia di infettare l’intero sistema oggi in crisi di crescita e con i primi sussulti di rivendicazioni conseguenti ad un oggettivo miglioramento economico generale che sta innescando anche una richiesta di un migliore organizzazione sociale più attenta alla persona ed alla sua dignità, oltre che solo e soltanto agli aspetti economici peraltro sinora avvenuti in un regime libertario selvaggio senza diritti e garanzie per i prestatori d’opera e con uno strapotere dell’imprenditoria inconcepibile nei Paesi dell’odiato cosiddetto capitalismo.

I primi sintomi di insofferenza si avvertono dovunque, ma è ad Hong Kong che sono divenuti plateali e stridenti a causa dell’incombente processo inverso di normalizzazione dopo che la regione, ex colonia britannica quindi plasmata a quella cultura ed a quell’ordinamento, è tornata alla madrepatria nel 1997, con un non traumatico periodo di transizione secondo l’opzione “un paese, due sistemi” che ha sinora consentito alla regione di mantenere un sistema istituzionale, sociale e finanziario di ispirazione anglosassone, ben lontano dal sistema autoritario cinese. Gli abitanti di Hong Kong possono eleggere i “parlamentari” del governo regionale, ma il capo dell’esecutivo, il premier o governatore come dir si voglia, viene eletto da un comitato ristretto di 1200 Grandi elettori nominate dal Presidente del Partito Comunista Cinese. Una clausola in prospettiva del superamento dei “due sistemi” e della riaffermazione del principio “un solo paese” e del suo sistema, quello autoritario di Pechino. Si comprende pertanto come la richiesta di eleggere il capo locale dell’esecutivo a suffragio universale, come richiesto dai dimostranti, venga vista dal governo centrale come una “eresia” sovversiva.

Già, ma il modello “un paese, due sistemi” era quello che aveva consentito l’avvio del dialogo tra la Cina continentale e Taiwan forse giocando sulla riserva mentale di entrambe le rispettive capitali, Pechino e Taipei, della provvisorietà della convivenza di due differenti sistemi politici ed economici e, al contrario, dell’evoluzione verso un unico sistema, per assimilazione di Taiwan al resto della Cina nell’ottica di Pechino, per una naturale evoluzione verso un modello di democrazia e di economia liberale della Cina continentale nell’ottica di Taipei, Nessuna delle due parti aveva esplicitato questi opposti punti di vista, anche se noi da queste pagine li abbiamo dati sempre per scontati parlando di due diversi ed opposti modi di vedere una futura ipotizzata riunificazione tra le “due Cine”.

In una nota cortesemente fattaci pervenire attraverso la Divisione Stampa ed Affari Culturali dell’Ufficio di Rappresentanza di Taipei in Italia, Ma Ying-jeou, Presidente della Repubblica di Cina (Taiwan), così commenta gli avvenimenti che ha visto per protagonista ad Hong Kong il Movimento noto come “Occupy Central” secondo la dizione con cui lo indicano i media «In questi ultimi giorni, la situazione di Hong Kong ha attirato l’attenzione internazionale. Il Governo e il Popolo della Repubblica di Cina (Taiwan) sono profondamente preoccupati circa i recenti sviluppi; desidero dunque cogliere questa occasione per esprimere il nostro punto di vista e le nostre speranze. A Taiwan è da tempo in vigore il suffragio universale, e ogni volta che si sono tenute le elezioni, molti dei nostri amici di Hong Kong sono venuti a osservare le procedure. Comprendiamo e sosteniamo pienamente la richiesta di Hong Kong per il suffragio universale. Hong Kong è un centro finanziario globale estremamente importante, e qualsiasi tumulto politico che l’attraversa ha un impatto non solo in Asia ma in tutto il mondo. Per questo, chiediamo alle autorità della Cina continentale di ascoltare con attenzione le richieste del popolo di Hong Kong e di adottare un approccio pacifico e cauto all’attuale situazione. Allo stesso tempo, spingiamo gli abitanti di Hong Kong ad esprimere i propri punti di vista in modo pacifico e razionale. Non vogliamo assistere a nessun conflitto. Gli osservatori internazionali sperano in un graduale avvicinamento di Hong Kong alla democrazia. Noi crediamo che, se verrà applicato il suffragio universale, sia Hong Kong che la Cina continentale ne potranno trarre beneficio».

La dichiarazione del Presidente Ma Yiug-jeou è stata rilasciata in un evento pubblico in occasione di un intervento presso la Camera del Commercio Mondiale di Taiwan, quindi i suoi echi sono giunti inequivocabili sino a Pechino, che ha replicato parlando di disordini fomentati da ingerenze straniere. Il Governatore di Hong Kong Leung Chun-ying , che, come facevamo notare, è espressione del Partito Comunista Cinese, ha affermato «Abbiamo la certezza della partecipazione di persone e organizzazioni esterne, ma che per lungo tempo hanno partecipato alla politica di Hong Kong. Questa non è la prima volta e non sarà l’ultima». Il riferimento non è esplicito e taluni osservatori ritengono che Leung alludesse alla vecchia potenza coloniale, ma la questione è marginale. Il dato incontrovertibile è che l’intera Cina continentale sta attraversando una crisi evolutiva che potrebbe destabilizzarla. Notevoli sono le differenze al suo interno tanto che taluni si spingono ad ipotizzare una sua possibile scissione in più entità in qualche modo omogenee. Inoltre, gli equilibri geopolitici dell’area sono in divenire con le maggiori potenze mondiali in competizione per ritagliarsi spazi in prospettiva.

Tra le ipotesi che a noi sembrano più realistiche e probabili in caso di collasso del sistema politico centralizzato della Cina continentale c’è quella di una leadership di Taiwan potenzialmente aggregante per le regioni continentali più evolute ed economicamente più progredite, tra l’altro anche più sensibili al richiamo dei valori delle democrazie liberali, per le quali Taiwan costituisce il modello più vicino e diretto sotto tutti gli aspetti, compresi quelli della continuità con la millenaria tradizione di civiltà. Taiwan, infine, è il maggiore investitore “estero” nella Cina continentale, con già oggi una significativa incidenza nell’economia produttiva, quindi del potere economico che sotto molti aspetti è anche politico.

Certo non abbiamo la sfera di cristallo dei veggenti e non siamo in grado di fare previsioni, ma solo analisi su potenziali tendenze evolutive. Come analisti pertanto non possiamo che focalizzare l’attenzione sull’area ed in particolare essere attenti a qualsiasi segnale, spesso soffuso ed in codice secondo la cultura orientale, provenga da una delle due sponde dello Stretto, quello che divide l’Isola di Taiwan dalla Cina continentale, che in passato ha visto tensioni conflittuali e scontri in armi. Ancora oggi, in clima sino ad ieri disteso ed amicale, centinaia di vettori erano puntati contro Taiwan della sponda continentale dello Stretto. Uno scenario preoccupante che però potrebbe venire annullato e reso innocuo da avvenimenti interni alla Repubblica Popolare Cinese, da una domanda di libertà e di democrazia latente in tutto il contesto cinese continentale e che ad Hong Kong per ragioni storiche e di autonomia di sistema politico e sociale si sta manifestando forse solo in anticipo ed in maniera non occulta.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:47