Nagorno Karabakh, genesi di un conflitto

Il conflitto del Nagorno Karabakh, fra Armenia e Azerbaigian, è uno dei tanti conflitti “congelati”, scoppiati dopo il crollo dell’Unione Sovietica e fermati con un accordo internazionale, ma mai risolti con un vero trattato di pace. Come gli altri conflitti congelati nell’ex Urss, rischia di scoppiare di nuovo, come dimostrano i numerosi scontri a fuoco occorsi in agosto e il più recente incidente militare, in cui un elicottero armeno è stato abbattuto dalla contraerea azera, il 12 novembre. Gli articoli pubblicati su questo quotidiano, da luglio a novembre, il botta-e-risposta fra il giornalista Romolo Martelloni, Gregorio Zovighian, dall’associazione “Iniziativa Italiana per il Karabakh”, da Giuseppe Munarini e dall’ambasciatore azero in Italia Vaqif Sadiqov, dimostrano quanto la tensione sia ancora viva e quanto bassa sia la propensione al dialogo fra le due parti in causa.

Lungi dal voler sanare un conflitto che si prospetta ancora lungo (non ne avremmo neppure la possibilità, nel nostro piccolo) e dal voler suggerire soluzioni di pace, ci interessa qui esaminare le cause, remote e recenti, di questo conflitto per meglio comprenderne la natura.

Cause remote: sia l’Armenia che l’Azerbaigian portano tuttora le ferite di grandi traumi del secolo scorso. L’Armenia, prima di tutto, è nata sulle spalle di uno dei peggiori genocidi del Novecento. Nel febbraio 1915, quando gli armeni erano ancora la minoranza cristiana più popolosa dell’Impero Ottomano, il governo dei Giovani Turchi, una volta dichiarata guerra all’Intesa e proclamata la jihad contro gli infedeli (novembre 1914), prese scientemente la decisione di eliminare fisicamente l’intera minoranza. Per più di un anno, fra la primavera del 1915 e l’estate del 1916, gli armeni furono massacrati sul posto o deportati in massa in campi di concentramento nel deserto siriano. Solo coloro che avevano la fortuna di essere nati sotto l’Impero Russo (in guerra con l’Impero Ottomano, al fianco dell’Intesa) o abbastanza vicini al fronte turco-russo da poter essere raggiunti dalle truppe zariste e alleate, ebbero modo di salvarsi. Il genocidio comportò l’uccisione di più di un milione e mezzo di armeni. Tuttora il 24 aprile (1915) è celebrato in tutto il mondo come giorno del genocidio armeno.

Quel che si tende a dimenticare è che il genocidio ebbe anche un secondo tempo e un terzo tempo. Nelle pieghe di questo grande massacro storico, si cela la ferita (mai abbastanza studiata) che tuttora porta l’Azerbaigian: nel caos del 1918, in pieno collasso della Russia rivoluzionaria, le truppe indipendentiste armene, appoggiate da unità della nascente Armata Rossa, occuparono gran parte del territorio dell’Azerbaigian. Nella primavera del 1918 sterminarono circa 50mila civili azeri, rasero al suolo interi villaggi e distrussero numerose moschee. Il 31 marzo (1918) è tuttora celebrato in Azerbaigian come giorno del genocidio azero.

Si deve ricordare, comunque, che poco dopo lo sterminio del 1918, gli azeri ebbero modo di vendicarsi con gli interessi. Il secondo tempo del genocidio armeno, infatti, fu nell’autunno del 1918, quando l’Armata Rossa si ritirò dal Caucaso e gli ottomani poterono passare al contrattacco. Riconquistando l’Anatolia orientale e parte dell’Armenia, si insediarono nel vicino Azerbaigian e vi crearono l’Esercito dell’Islam, sotto la guida di Enver Pasha. Ovunque arrivarono gli ottomani e il locale Esercito dell’Islam, costituito prevalentemente da azeri, gli armeni furono sterminati: solo a Baku i morti furono 30mila, in tutto l’Azerbaigian le stime variano dai 50mila ai 100mila assassinati, a seconda delle fonti. Il terzo tempo fu il 1920, quando il fondatore della moderna Turchia, Kemal Ataturk, respinse il Trattato di Sèvres (che definiva confini armeni molto più ampi rispetto a quelli attuali) e occupava di nuovo le regioni armene dell’Anatolia orientale, completando la pulizia etnica della popolazione locale: altri 71mila armeni furono massacrati. I turchi non hanno mai riconosciuto il genocidio del 1915-16, né gli sterminii successivi. I sovietici, che dal 1920 in poi, furono padroni di tutto il Caucaso, controllando sia Armenia che Azerbaigian, congelarono il conflitto. Nel 1923, Josif Stalin, che allora era ministro delle Nazionalità, decise di incorporare il Nagorno Karabakh all’Azerbaigian, per garantirne la continuità territoriale indipendentemente dal fatto che la maggioranza degli abitanti della regione fosse armena. La religione, da un punto di vista sovietico, non costituiva un problema: era imposto l’ateismo di Stato. Le tensioni etniche neppure: ovunque fosse esteso il potere sovietico, si doveva forgiare un “uomo nuovo” comunista e libero da legami familiari e tradizionali.

Il doppio fenomeno del negazionismo turco (che tuttora è implementato dalla legge penale) e del dominio sovietico, provocarono uno strano fenomeno, incomprensibile agli occhi di un europeo occidentale: invece che risolversi entro i nuovi confini, il conflitto fra armeni e azeri rimase in ibernazione. Rispuntò fuori nel 1988, come un fossile dopo un grande disgelo, quando la struttura dell’Urss iniziò a vacillare. (…)

(Fine prima parte)

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:52