Nagorno Karabakh, genesi di un conflitto (II)

Il conflitto nel Nagorno Karabakh fra Armenia e Azerbaigian non si può comprendere senza tener conto degli errori commessi dalla classe dirigente sovietica, negli ultimi anni di vita dell’Urss. Paradossalmente il conflitto moderno, frutto dell’ostilità del secolo scorso, solo congelata ma non risolta all’interno dell’Unione Sovietica, ricominciò grazie alla libertà di espressione. Dopo settant’anni di stretta censura e repressione di ogni cultura nazionale, nel 1986 l’annuncio della “trasparenza” (glasnost) da parte del presidente Michail Gorbachev fece rifiorire le letterature nazionali in tutta l’Urss. La parziale libertà di espressione incominciò a diventare una realtà solo nel 1987. Ma strideva con una linea politica del Partito Comunista, che vedeva ancora le nazionalità come un ostacolo da superare, un retaggio del passato destinato a scomparire. Il programma per le nazionalità del 1986 puntava ancora alla “fusione” delle nazioni che componevano l’Urss per un “lontano futuro”. Ateismo di Stato, socialismo e solidarietà fra nazioni socialiste, ancora all’epoca di Gorbachev erano considerati il toccasana per tutti i problemi. Lo scoppio dei primi scontri in Nagorno Karabakh e in Azerbaigian dimostrarono quanto fosse lontano dalla realtà il sistema sovietico. Proprio mentre Gorbachev, all’estero, aveva raggiunto il massimo della popolarità, grazie alle sue aperture nei confronti della Nato e ai suoi annunci di liberalizzazioni in patria, per le popolazioni reali del Caucaso il 1988 segnò l’inizio della discesa agli inferi.

Il plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista Sovietico del febbraio 1988, dedicato ai temi dell’istruzione e delle lingue nazionali, non riuscì a formulare alcuna proposta sostanziale di riforma. Le nazionalità più vivaci e con una forte identità storica alle spalle, fra cui l’Armenia, avevano chiesto invano di restaurare il proprio idioma come lingua ufficiale delle loro repubbliche. Contemporaneamente, una delegazione del Nagorno Karabakh, la regione dell’Azerbaigian abitata da armeni, chiese al Politbjuro di cambiare i confini tracciati da Stalin nel 1923 e di incorporare la regione nella Repubblica Socialista Sovietica dell’Armenia, in conformità con il nuovo rispetto per il principio delle nazionalità. La delegazione armena ebbe la sventura di incontrare solo personaggi di secondo piano del Politbjuro, che non seppero dare delle risposte chiare. Petr Demichev, in particolare, membro supplente del massimo organo direttivo sovietico, diede l’impressione che una riunificazione della regione armena con il resto dell’Armenia non sarebbe stato un problema. Era considerata una misura “né antisovietica, né nazionalista”. Quando i funzionari armeni tornarono a Stepanakert, capitale del Nagorno Karabakh, cantarono vittoria. Il soviet locale, dominato dalla maggioranza armena iniziò a indire una serie di riunioni volte a votare per il distacco dall’Azerbaigian e la riunificazione con l’Armenia, fra le proteste dei dirigenti comunisti azeri. Prima che Mosca si accorgesse di quel che stava avvenendo, dovette scorrere il primo sangue.

Il 20 febbraio 1988, il soviet del Nagorno Karabakh votò per la riunificazione con l’Armenia. Il 21 febbraio, cambiando decisamente rotta, il Politbjuro respinse la richiesta di modificare le frontiere. La situazione era infatti troppo delicata: quasi mezzo milione di armeni vivevano in Azerbaigian e 160mila azeri erano residenti in Armenia. Ma il “no” sovietico deluse a tal punto gli armeni che da lì iniziò il caos. La popolazione di Erevan, la capitale armena, iniziò a scendere in piazza tutti i giorni, mentre gli operai proclamavano uno sciopero generale. Entro pochi giorni le notizie iniziarono a diffondersi, non solo nel resto dell’Urss, ma anche nel resto del mondo. Colti da panico, i cittadini azeri residenti nel Nagorno Karabakh iniziarono a scendere in piazza anche loro e le leggende nere su crimini (stupri e omicidi) ai danni dei loro connazionali a Stepanakert circolarono senza controllo. Questo clima di alta tensione portò agli scontri di Askeran, il 22 febbraio, quando i manifestanti azeri si scontrarono con quelli armeni. Due azeri persero la vita. Oltraggiati dalle notizie, sempre peggiori, che giungevano dalle regioni armene, gli azeri di Baku e dei suoi sobborghi iniziarono letteralmente a dare la caccia all’armeno. A Sumgait, non lontano da Baku, il 27 febbraio iniziò un vero e proprio pogrom anti-armeno. Quando le truppe sovietiche entrarono nella cittadina per sedare i disordini, i morti erano già 32 (stime ufficiali di Mosca) di cui 26 armeni e 6 azeri. Secondo le stime armene, le vittime del pogrom furono molte di più. In ogni caso, Sumgait entrò a far parte delle ferite nazionali subite dagli armeni. Per cercare di gettare acqua sul fuoco, le autorità sovietiche presero la decisione di tornare in forze nel Caucaso, sopprimendo il più possibile le autonomie locali. La “Pravda” e le “Iszvetzia”, i giornali ufficiali dell’Urss, iniziarono ad attaccare i moti armeni e azeri (ma soprattutto quelli armeni) come esempi di “egoismo nazionalista”. Il 23 marzo il Politbjuro respinse definitivamente la richiesta di unione con l’Armenia del Nagorno Karabakh. Il 24, l’esercito sovietico, dopo un mese di manifestazioni e scioperi a Erevan, occupò manu militari la capitale dell’Armenia. I dissidenti locali definirono quell’occupazione, inaspettata e brutale, come una “Sumgait dell’anima”. La popolazione armena, che fino a quel momento aveva contato sulla protezione delle autorità sovietiche, iniziò a considerarle come il principale nemico.

Persa la fiducia degli armeni, i sovietici ci misero poco a perdere anche quella degli azeri. Nel gennaio del 1990, dopo un anno di scontri nei villaggi di confine fra Armenia e Azerbaigian e dopo un primo “scambio” di popolazioni di centinaia di migliaia di individui (armeni in fuga dall’Azerbaigian e azeri in fuga dall’Armenia), il governo locale di Erevan decise di includere la regione del Nagorno Karabakh nel budget dell’Armenia e diede agli armeni locali diritto di voto nelle successive elezioni. In Urss si iniziava a votare con liste multi-partitiche e la palla passò ai nazionalismi. La reazione azera, anche in questo caso, fu spontanea e violenta. Vedendosi privare di una loro regione, senza alcuna autorizzazione da parte di Mosca, la dirigenza comunista dell’Azerbaigian iniziò a formare comitati di difesa nazionale, con squadre armate nelle fabbriche e nelle città di confine. I convogli ferroviari diretti all’Armenia, da cui dipendeva gran parte dell’approvvigionamento della repubblica, vennero bloccate. Anche gli armeni, nel frattempo, si erano organizzate con milizie proprie. Era come se l’Urss avesse già cessato di esistere in quelle regioni ai confini dell’impero.

Già erano avvenuti pogrom anti-armeni alla fine del 1989, ma nel gennaio si intensificarono a Baku. Dal 12 al 19 gennaio un’altra “caccia all’armeno” provocò almeno 90 morti. A questo punto, messi di fronte alla necessità di fermare un massacro, i dirigenti sovietici decisero di intervenire col pugno di ferro. Ma lo fecero nel peggiore dei modi. Il 20 gennaio, per stroncare le milizie armene, i reparti corazzati sovietici, appoggiati dalla marina e dai paracadutisti, invasero Baku e spararono contro qualunque cosa, come se fossero stati in una città nemica. Le stime del massacro, conosciuto come eccidio del “gennaio nero”, sono tuttora sconosciute. Fonti azere parlano di almeno 300 vittime, mentre secondo le stime ufficiali sovietiche, solitamente al ribasso, i morti furono 120. Il massacro generò giornate di manifestazione e un lutto nazionale in Azerbaigian. La causa anti-armena si fuse con la causa indipendentista.

I sovietici commisero poi un terzo errore fatale, nella primavera dell’anno successivo. Per tentare di tenere assieme i cocci di un’Urss sempre più disgregata, Gorbachev indisse un referendum in tutte le repubbliche per ribadire il Trattato dell’Unione. L’Armenia lo boicottò, perché aveva ormai imboccato la via dell’indipendenza. Vuoi per punire l’Armenia, vuoi per ricompensare l’Azerbaigian per il “gennaio nero”, le truppe del ministero dell’Interno sovietico diedero il via a una vera pulizia etnica degli armeni nella provincia di Shahumyan, nel Nagorno Karabakh, in territorio azero. Doveva essere un “trasferimento” di popolazione per porre fine agli scontri locali, in realtà si tradusse in una vera deportazione, in stile sovietico. In questo modo, Gorbachev si alienò definitivamente anche la popolazione armena del Nagorno Karabakh.

La vera guerra fra Armenia e Azerbaigian scoppiò nel gennaio 1992, subito dopo la dissoluzione dell’Urss. L’esercito sovietico si dissolse, caserme e depositi di armi furono a disposizione delle forze armate locali. Gli armeni nel Nagorno Karabakh formarono delle milizie di autodifesa e proclamarono l’indipendenza dall’Azerbaigian, in vista di una riunificazione con l’Armenia. L’Azerbaigian passò all’attacco con forze preponderanti, ma meno addestrate ed esperte rispetto a quelle armene, formate da veterani della guerra sovietica in Afghanistan. Già al primo mese di guerra, il conflitto si macchiò con la sua prima grande infamia: il massacro di Khojali. Questa cittadina, non lontana da Stepanakert, era abitata da una maggioranza di azeri, ospitava l’unico aeroporto della regione ed era controllata dall’esercito azero. Da Khojali partirono una serie di bombardamenti contro Stepanakert, sin dal giorno della proclamazione di indipendenza. Finché non furono gli armeni a passare al contrattacco. Appoggiati dal 366mo reggimento delle truppe di interposizione della Csi (la Confederazione Stati Indipendenti, teoricamente erede dell’Urss), gli armeni conquistarono la piazzaforte. Gli armeni lo negano tuttora, ma le truppe irregolari del Nagorno Karabakh condussero un massacro della popolazione civile locale, nonostante avessero promesso agli azeri di lasciare aperto un corridoio umanitario per evacuare i non combattenti. Human Rights Watch e l’associazione russa per i diritti umani Memorial, fra le altri fonti indipendenti, confermano che a Khojali vi fu un massacro e fu opera di milizie armene. Non del “fuoco amico” dell’esercito azero. Il numero esatto dei morti è tuttora sconosciuto, le fonti ufficiali azere parlano di 613 morti, le fonti ufficiali armene di 485, Human Rights Watch parla semplicemente di “più di 200”. Khojali, come il “gennaio nero” di due anni prima costituisce un’altra profonda ferita nella coscienza azera. La sua memoria ostacola ogni dialogo, proprio come le ferite di Sumgait e Baku, per non parlare del genocidio del secolo scorso, impediscono agli armeni di scendere a compromessi troppo facilmente.

Con il massacro di Khojali, comunque, si rompe definitivamente la possibilità di ricomporre pacificamente la questione del Nagorno Karabakh. La guerra sarebbe durata altri due anni e tuttora non è ufficialmente chiusa. In ogni caso, la genesi del conflitto spiega perché questa partita non possa chiudersi con una semplice stretta di mano. Le due parti non riconoscono vicendevolmente la legittimità del nemico, non riconoscono l’interpretazione storica del nemico. Vivono letteralmente in due realtà parallele e non comunicanti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:49