Nucleare, l’Iran   prende tempo

In conclusione, i negoziati sul nucleare iraniano non hanno una conclusione. Anche il summit di Vienna, fra il regime di Teheran e il gruppo di contatto internazionale, sono finiti con una fumata nera. Nessun accordo, nessun compromesso, nemmeno le concessioni (incredibili per generosità e ampiezza) degli Stati Uniti hanno smosso il presidente Rouhani e l'ayatollah Khamenei. Trionfante, alla televisione nazionale, il presidente “moderato” e “riformatore” ha annunciato la vittoria al negoziato di Vienna, ribadendo il diritto al nucleare senza compromessi. In un negoziato che sembra infinito (e ormai privo di senso) come quello sul nucleare iraniano, siamo sempre obbligati a ripercorrere le tappe precedenti per capire a che punto siamo.

Da almeno 12 anni, il programma nucleare dell'Iran suscita vive preoccupazioni, sia in Israele che negli Stati Uniti. In primo luogo perché era in gran parte segreto e gli impianti per l'arricchimento dell'uranio sono stati scoperti solo grazie a informazioni di intelligence, poi rivelatisi vere. In secondo luogo, perché il programma di arricchimento dell'uranio, anche se non direttamente collegato ad armi atomiche, può rivelarsi utile per la loro pronta fabbricazione. In terzo luogo, perché vi sono tracce (non prove vere e proprie, ma indizi) di un programma parallelo per la fabbricazione e la sperimentazione di testate nucleari vere e proprie. In teoria, stando alle fonti di Teheran, tutti questi sospetti sono infondati, perché il programma nucleare è pacifico e volto solo alla produzione di energia elettrica per il Paese (nonostante il Paese sia uno dei maggiori produttori ed esportatori di petrolio e gas nel mondo).

In pratica li desta, perché tutti gli indizi finora elencati, a partire dalla segretezza che ha sempre circondato il tutto, porterebbero a pensare a un programma militare e non solo civile. Per fidarsi di Teheran dovremmo solo basarci sulle dichiarazioni pacifiche delle massime autorità del regime. E di una fatwa contro le armi nucleari, probabilmente promulgata dall'ayatollah Khamenei nel 2003, ma mai pubblicata. Dovremmo, invece, fingere di non avere mai sentito, o credere fermamente di aver mal interpretato, tutta la serie di minacce di distruzione di Israele, soprattutto quelle lanciate dall'ex presidente Mahmoud Ahmadinejad. E mai realmente ritrattate o smentite dal suo successore Rouhani. In questo scenario, il gruppo di contatto internazionale (i cinque membri permanenti delle Nazioni Unite, più la Germania) hanno sempre posto due paletti alla trattativa: per evitare sanzioni o pressioni di vario genere, magari anche militari, l'Iran avrebbe dovuto smantellare il suo programma di arricchimento dell'uranio e aprire le porte agli ispettori dell'Aiea.

Nell'accordo ad interim tuttora in vigore, adottato per permettere la trattativa di Vienna, l'Iran si è limitato a sospendere temporaneamente il programma di arricchimento dell'uranio. E solo per questo le sanzioni economiche sono state sospese. In quest'ultimo round negoziale, gli Usa soprattutto (finora i più “duri” del gruppo di contatto, anche perché non dimenticano di essere considerati il Grande Satana dal regime di Teheran) hanno accettato di sorvolare sullo smantellamento del programma di arricchimento dell'uranio e hanno ventilato anche la possibilità di non inserire l'obbligo delle ispezioni fra le condizioni irrinunciabili. In pratica, gli stessi Stati Uniti stavano firmando una cambiale in bianco all'Iran.

Il perché è facile capirlo e si legge fra le righe delle varie dichiarazioni della Casa Bianca e di Foggy Bottom: “dare fiducia” al presidente Rouhani, per incoraggiarlo a fare le riforme e ad interrompere da solo, spontaneamente, il programma nucleare; permettere a Teheran di “salvare la faccia”, interrompendo il programma senza far apparire l'interruzione come una sconfitta diplomatica; “coinvolgere” l'Iran nella soluzione alla guerra civile siriana e a quel cancro geopolitico che è il Califfato in Siria e Iraq. La Russia è coinvolta nel gruppo di contatto ed è alleata dell'Iran. Nella disponibilità americana al compromesso, c'è dunque anche una concessione a Putin, in cambio del rispetto della tregua in Ucraina, altro fronte di crisi tuttora aperto. Questo approccio diplomatico potrebbe anche funzionare, solo se il regime iraniano fosse realmente spaccato al suo interno. Cioè, se Rouhani fosse veramente un rivoluzionario al vertice del governo, pronto a sfidare i pasdaran e lo stesso Khamenei, se necessario, per cambiare il sistema dall'interno.

Rouhani, insomma, dovrebbe essere quel che Gorbachev fu per l'Urss. Ma Gorbachev era tutt'altro che un rivoluzionario e la fiducia concessagli dai suoi partner occidentali (a partire da Reagan e dalla Thatcher) si rivelò del tutto infondata. Con Rouhani si rischia di fare la stessa figura degli illusi, perché non c'è alcuna prova, né alcun indizio che Rouhani voglia realmente cambiare l'Iran, specie nella politica estera, specie nel suo programma nucleare. Alla fine, nonostante le ampie concessioni, l'Iran ha nuovamente detto di “no”, dimostrando palesemente di non voler cambiare rotta. Ma il negoziato continua. A dicembre il prossimo appuntamento, nell'estate del 2015 ci sarà un nuovo round negoziale. E il tempo, in questa partita, gioca a favore del regime di Khamenei.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:49