“Global Warming”:   lusso da Paesi ricchi

Lima, 12 giorni di negoziati, 190 Paesi presenti, per cercare di giungere ad un accordo preliminare sul clima. Un documento definitivo sarà poi negoziato a Parigi, l’anno prossimo, in quello che potrebbe diventare un secondo “protocollo di Kyoto” per la riduzione delle emissioni di gas serra.

Il negoziato di Lima ha presentato una caratteristica inedita rispetto al passato. Ha portato allo scoperto, infatti, il conflitto economico latente, fra i Paesi industrializzati e quelli ancora in via di sviluppo. La politica di riduzione del riscaldamento globale, è volta a combattere un fenomeno climatico (il riscaldamento, appunto) della cui esistenza non vi è affatto alcuna certezza scientifica. Di certo ci sono solo i costosi provvedimenti che devono essere presi per ridurre le emissioni di gas serra dalle attività industriali umane, ritenuti responsabili (ma anche su questo rimane l’incertezza) di contribuire al riscaldamento globale (che da 15 anni non c’è, la temperatura media non cresce dal 1998, infatti). I Paesi già industrializzati hanno le risorse necessarie a far fronte a tutte le misure richieste. I Paesi dell’Ue, in particolar modo, tutti (tranne l’Italia) dotati di numerosi impianti elettro-nucleari, possono anche fare a meno della produzione termo-elettrica, che è una delle maggiori fonti di emissioni.

I Paesi in via di sviluppo, al contrario, stanno appena avvicinandosi ai nostri livelli di produzione e consumo. La loro rinuncia a una parte di benessere, in cambio di una salvaguardia ambientale di cui, evidentemente, non sentono il bisogno, è vissuta come una imposizione esterna, per minare sul nascere il loro ruolo di potenziali concorrenti globali. La battaglia sul clima viene presentata con toni estremamente catastrofisti da consessi internazionali tecnici, come l’Ipcc, l’International Panel for Climate Change, che periodicamente, anche quest’anno, pubblica rapporti in cui fissa scadenze sempre più vicine, per intervenire con misure drastiche onde evitare inimmaginabili conseguenze. Questo tono allarmista è ben rappresentato dal discorso tenuto ieri da John Kerry (segretario di Stato degli Usa) a Lima. Secondo lui il mondo intero è indirizzato su una “strada che porta dritta verso il disastro”. E probabilmente, dicendolo, ci crede: l’informazione scientifica mainstream dice questo e non ammette contestazioni. Ma, a questo punto, Kerry chiede sacrifici, anche a chi non se li potrebbe permettere. “So che è difficile per le nazioni in via di sviluppo. Ma dobbiamo ricordare che, oggi come oggi, più della metà delle emissioni vengono da loro e dunque è tassativo che debbano intervenire di conseguenza”.

A questo ragionamento si oppone il primo dei Paesi in via di sviluppo, la Cina, che contrappone a Kerry il principio di “responsabilità comune, ma azione differente”, che implica meno sacrifici per chi ha appena imboccato la via dell’industrializzazione. Protesta anche il Brasile, rappresentato a Lima da Antonio Marcondes: “Noi stiamo al di qua del principio della differenziazione, stiamo al di qua del principio ‘responsabilità comune, azioni differenti’. E’ un punto che noi sosteniamo con forza, è una linea rossa che non deve essere passata”. E il Brasile, così come la Cina, non sono isolati: parlano a nome del G77, il gruppo di 77 Paesi in fase di industrializzazione. L’Unione Europea che, appunto, è la parte più avvantaggiata dalla politica contro il riscaldamento globale, propone di raggiungere l’obiettivo “zero emissioni” entro il 2050. La Germania, una delle nazioni che fanno più ricorso all’energia atomica e alle fonti rinnovabili, propone addirittura una riduzione del 40% di emissioni entro il 2020 (fra cinque anni!).

L’Ue, rappresentata anche dal nostro ministro per l’Ambiente Gian Luca Galletti, si presenta a Lima con i piani più arditi, mirando già prima di Parigi a un accordo vincolante. In particolar modo sostiene la possibilità di effettuare un esame preventivo sulle politiche che i singoli Paesi intendono adottare per raggiungere gli obiettivi di lotta al riscaldamento globale. Ma a questo punto è l’India che si è opposta. Il rappresentante indiano a Lima, afferma: “Noi siamo favorevoli a una presentazione trasparente delle politiche del nostro Paese, ma pensiamo che un esame preventivo in vista dell’anno prossimo sia uno sforzo non necessario”. Per l’India è soprattutto una questione di difesa della propria sovranità: gli altri Paesi non hanno il diritto di intervenire nelle sue politiche ambientali. Su queste premesse si arriverà al negoziato di Parigi con un mondo ancor più diviso fra ricchi e poveri. Sebbene le politiche contro il riscaldamento globale siano spesso presentate in termini sociali e solidali, per impedire che i Paesi poveri soffrano ancor di più a causa di presunte desertificazioni e/o inondazioni future, con il negoziato di ieri è invece emersa la realtà opposta. Il contrasto al riscaldamento globale è un lusso che ci possiamo permettere solo noi ricchi. I poveri hanno altro a cui pensare.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:49