Lo scacco matto al Re (dell’Arabia Saudita)

In un solo giorno, la penisola arabica, una delle aree più calde del mondo, è cambiata drasticamente. E’ morto Abdullah, il re dell’Arabia Saudita e il presidente dello Yemen ha dovuto rassegnare le dimissioni, sotto i colpi dei ribelli sciiti. Emerge un unico vincitore: l’Iran. E non è una buona notizia.

Re Abdullah, è stato un monarca assoluto, un riformatore talmente timido che ha lasciato in piedi un apparato repressivo fra i peggiori del mondo (1000 frustate a un blogger, due donne decapitate, giusto per citare gli esempi più eclatanti delle ultime due settimane), un alleato degli Usa che però ha permesso la crescita di movimenti jihadisti sunniti in tutta la regione, ma comunque ha avuto almeno un ruolo fondamentale: ha contenuto l’espansione dell’Iran, finché è stato possibile e finché ha trovato a Washington orecchie disposte ad ascoltarlo. Quando è sorto il Califfato in Iraq e Siria, ha avuto un ruolo importante nel mettere in piedi una coalizione araba per combatterlo e contenerlo, se non altro perché sapeva di essere lui personalmente una vittima potenziale di una rivoluzione scatenata dall’Isis. Quando i Fratelli Musulmani hanno perso il potere in Egitto e il generale Al Sisi si è presentato come il nuovo garante dell’ordine, è stato il primo a sostenerlo, rompendo con la Fratellanza in modo definitivo e rompendo anche con il Qatar che invece continua ad appoggiarne e finanziarne l’espansione. Nonostante tutto, Abdullah è stato un alleato degli interessi occidentali contro i peggiori pericoli della galassia islamista, sia sciita che sunnita.

La morte di re Abdullah è stata preceduta da una sua “morte” politica, quando gli Stati Uniti hanno iniziato ad appoggiare i Fratelli Musulmani, ben visti dall’entourage di Obama. Ma soprattutto, quando l’amministrazione democratica ha visto nel presidente iraniano Rouhani un “riformatore” a cui poter fare ampie concessioni. L’ultimo chiodo nella bara è stato piantato nello Yemen, paese sorretto dagli aiuti economici e militari sunniti. Questa settimana, i ribelli sciiti del fronte di Houti, che fino al 2011 erano un fenomeno marginale, hanno conquistato niente meno che la capitale, Sanaa. Hanno assediato il palazzo presidenziale, colpito la residenza del presidente Hadi, costringendo lui e il governo alle dimissioni sotto la minaccia delle armi. Si è trattato di un colpo di Stato in piena regola, condotto militarmente e senza equivoci.

Ed è stato reso possibile dagli aiuti e dal paziente lavoro di infiltrazione dell’Iran, che ha sostenuto la ribellione sciita. Lo Yemen finora era una “periferia” turbolenta dell’Arabia Saudita, adesso può diventare uno Stato satellite dell’Iran alle porte del regno degli Al Saud. Negli ultimi anni, l’arretramento saudita e l’avanzata iraniana si sono manifestati anche su altri fronti strategici. In Siria, prima di tutto, dove, nel 2013, è avvenuto il primo smacco americano all’alleato di Riad. Era soprattutto re Abdullah a chiedere un intervento militare contro il regime di Assad nel 2012, è stato Obama a prometterlo, ma solo per ritirare le sue intenzioni meno di un anno dopo, nel settembre del 2013. E adesso? La pace non è tornata. In compenso la Siria è divisa fra un regime fortemente sostenuto (e ormai di fatto controllato militarmente) dall’Iran e un fronte ribelle frammentato, in cui la fazione più forte è rappresentata dall’Isis. La Siria è ormai un conflitto fra due fazioni anti-occidentali, entrambe nemiche giurate di Israele e degli Usa. In cui la fazione più forte, quella del regime, è infiltrata a tal punto dagli iraniani che, nel corso dell’ultimo raid aereo israeliano, le vittime sul terreno, in Siria, non erano siriane, ma ufficiali e militari iraniani.

Il principe Salman succederà ora al trono saudita e dovrà metter mano a una situazione da incubo: iraniani a Sud (Yemen), iraniani a Nordovest (Siria), iraniani a Nordest (le milizie sciite che appoggiano Baghdad), jihadisti rivoluzionari a Nord (Califfato), un unico alleato sempre più freddo (gli Stati Uniti), il pericolo latente di un’insurrezione sciita nel proprio Paese, la minaccia latente di un’insurrezione sciita nel vicino Bahrein, la minaccia ideologica del Qatar alle porte di casa, un prezzo del petrolio in caduta libera che sta danneggiando tutti i suoi nemici, ma che potrebbe danneggiare, alla lunga, anche l’economia saudita. Se il buongiorno si vede dal mattino…

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:11