La disavventura di Pacifici è da film dei fratelli E. e J. Cohen

venerdì 30 gennaio 2015


Un nipote di ebrei deportati e uccisi ad Auschwitz che diventa capo della comunità ebraica di Roma e che 70 anni dopo quei fatti si ritrova per errore a passare una notte nello stesso luogo in cui insieme ai suoi avi morirono centinaia di migliaia di suoi correligionari? A Riccardo Pacifici questo è successo. E neanche i fratelli Cohen avrebbero saputo inventare qualcosa di più paradossale per una sceneggiatura di un loro film. E forse neanche Woody Allen. La cosa era su tutte le agenzie ieri sera: il maldestro tentativo di uscire da Auschwitz in piena notte da una finestra, dopo che all’interno vi era stata registrata una puntata di Matrix (prigioniero è rimasto anche David Parenzo e un operatore tv) sortiva solo l’effetto di fare arrivare la polizia che, credendo di trovarsi di fronte magari a vandali anti semiti, portava tutti in commissariato. Dove la cosa si sarebbe risolta in maniera “diplomatica” grazie all’intervento dell’unità di crisi della Farnesina solo alcune ore dopo.

Alle cinque del mattino. Insomma veramente una giornataccia. Questa storia da film, con risvolti tra il macabro e il tragi comico, contiene a mio modo di vedere, un chiaro segnale del destino: questi viaggi della memoria, sicuramente utili per i più giovani che tendono a perdere quella a medio termine (ci sono 30 enni giornalisti che neanche hanno mai saputo in che anno le Br sequestrarono Aldo Moro e uccisero cinque agenti della sua scorta), possono provocare effetti collaterali indesiderati.

Che poi sono quelli da una parte del “negazionismo” e dall’altra dell’imposizione stessa, per gita scolastica, di questa memoria. Che invece anderebbe molto lasciata all’apprezzamento e alla maturazione del singolo. E non all’aggregazione politically correct del gregge scolastico. In questi giorni di fine gennaio in concomitanza con l’anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa nil 27 gennaio 1945 tutti i programmi radiofonici di Radio tre, tanto per dirne, una sono stati improntati alla memoria della Shoà. Quasi si trattasse di indossare una divisa.

E naturalmente non sono mancati dei vigliacchetti che hanno tentato l’ardito paragone Gaza uguale Auschwitz o “i palestinesi di oggi sono come gli ebrei di ieri”. Dimenticando che ieri come oggi i palestinesi si sono spesso distinti per l’islamo nazismo: dallo zio di Arafat, il gran Muftì di Gerusalemme, Amin al Husseini, che fondò le SS islamiche (facendosi fotografare con Hitler) e che voleva avvelenare l’acquedotto di Tel Aviv con la complicità di Mussolini, che però poi non dette corso alla cosa, agli uomini di Hamas che oggi sono i più feroci propagandisti dell’anti semitismo e della corsa a uccidere quanti più ebrei possibili in Medio Oriente. Quindi come è solamente possibile ipotizzare il blasfemo parallelo? Ma la sinistra italiana ed europea, è notorio, ha una passione per la memoria degli ebrei morti pari soltanto alla avversione che nutre per quelli ancora vivi. Così tace sulle persecuzioni degli ebrei in tutto il mondo islamico.

Come peraltro tace anche sulle persecuzioni delle centinaia di migliaia di cristiani da parte di estremisti e fanatici islamici in Africa come in Medio Oriente. Al Ghetto di Roma in concomitanza con il giorno della memoria è apparso uno striscione dai toni molto drastici: “non onorate la memoria degli ebrei morti se non difendete la vita e i diritti di quelli vivi”. Ecco questa frase è il giusto monito per chi, a sinistra come anche a destra o nel mondo dei cattolici integralisti o dei finti islamici moderati, una volta l’anno si ripulisce la coscienza del proprio anti sionismo e anti semitismo latente magari facendosi intervistare dalla radio o dalla tv in occasione del 27 gennaio, data della liberazione di Auschwitz.

Spargendo tante lacrime di circostanza. Un po’ come i mariti che picchiano le mogli trecentosessantaquattro giorni l’anno e che poi l’ otto marzo le regalano la mimosa per la festa della donna. Beh, il giochetto è ormai scoperto. Inventatevene un’altra.


di Dimitri Buffa