Elezioni o referendum  su Netanyahu?

A due settimane dalle elezioni anticipate in Israele (si vota per il 20esimo rinnovo del parlamento israeliano) l’attenzione dell’opinione pubblica interna e internazionale si sta sempre più focalizzando sulla persona del premier Netanyahu. Non dovrebbe sorprendere che una delle figure di spicco delle ultime due decadi, e assolutamente centrale nell’ultima, sia oggetto di discussione, sia pro che contro, nel dibattito pubblico. La sua campagna elettorale incentrata sulla minaccia iraniana e i difficili, se non tesissimi, rapporti con l’amministrazione Obama la fanno da padrone sui giornali e sui social. Bibi Netanyahu è diventato in Israele la figura su cui ruota l’intera discussione politica, monopolizzando idee e ideologie che trovano espressione o negazione nella sua persona e opera di governo.

Questo fenomeno presenta elementi alcuni passati della politica israeliana ma ne mostra di nuovi in numero maggiore. I primi anni dello stato ebraico sono stati caratterizzati dalla figura del Mapai (successivamente confluito nell’attuale e fortemente ridimensionato partito laburista) che totalizzava il consenso e il dissenso del dibattito politico, portando un eventuale critico d’Israele a diventare un critico del partito guidato da Ben Gurion. Le novità stanno in primo luogo nella figura personale del referente della politica, che mentre prima si vedeva in un partito, ora assume le forme di un leader al quale indirizzare ogni sorta di ingiuria o lode. Proprio questa caratteristica mostra un cambiamento nella percezione della politica rappresentativa in Israele che, a differenza del passato, non trova giustificazione e anzi fuorvia dalle vere problematiche dello stato ebraico. I governi israeliani fino alla metà degli anni novanta, con l’eccezione del governo Sharon, godevano di un costitutivo forte, rappresentato da un numero alto di membri della Knesset nel primo partito, e di una omogeneità dei canali decisionali oggi perduta. Le componenti minoritarie e potenzialmente turbative dell’azione di governo venivano tenute sotto controllo con abilità dai governanti, sostenuti da uomini di grande considerazione e fiducia presso l’elettorato.

La situazione odierna presenta differenze sostanziali. Nonostante la legge elettorale non sia cambiata (proporzionale puro con sbarramento al 2%), lo stato ebraico non riesce più a dare vita a governi stabili, duraturi, e sopratutti attivi. Le coalizioni governative degli ultimi esecutivi sono riuscite a mettere insieme una miriade di partiti, e partitini fra le estrazioni più disparate, con intenti e progetti inconciliabili. La mancanza di un vero vincitore dalle urne non sembra essere tuttavia un problema primario nel dibattito pubblico israeliano, il quale preferisce sondare e vagliare le virgole dei discorsi di Netanyahu (in questi giorni negli USA, su invito dei repubblicani) piuttosto che insistere sull’inesistente stabilità governativa. È evidente che i rapporti fra gli Stati Uniti e Israele sono il primo fattore della politica estera per lo stato ebraico, e devono godere della massima attenzione, però pensare che un solo uomo, un politico di vecchia data certo ma ben lontano dal poter essere avvicinato ai mostri sacri della storia israeliana, abbia il potere di cambiare faccia al proprio paese è un’idea che non trova riscontro nella complicata situazione strutturale d’Israele.

Forse proprio per questo la tentazione di trovare una chiave di lettura unica diventa estremamente accattivante. Per gli anti-Bibi rassicura pensare che una volto tolto di mezzo il leader del Likud, Israele entrerà in una nuova fase, mostrando al mondo un volto pulito (Herzog e Livni? Figure poco convincenti) e guadagnando credibilità internazionale. Per coloro che credono ancora nell’attuale capo di governo, solo lui potrà garantire la sicurezza del popolo ebraico e dalla sua rielezione dipenderà il futuro d’Israele. Entrambe visioni errate e un po’ fanciullesche in un paese dove il sistema politico richiede da tanto tempo una revisione e un adattamento ai cambiamenti del mondo circostante di cui l’elettorato non sembra volersi rendere conto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:01