Israele, se Obama non accetta la realtà?

In Israele, due giorni fa, le elezioni sono state vinte da Benjamin Netanyahu, contro tutte le previsioni. E questa non è una novità: in una democrazia il parere dell’opinione pubblica può cambiare anche all’ultimo momento, i pronostici possono benissimo essere sbagliati, la stampa può gonfiare le aspettative per un candidato (che poi risulta perdente) in base alle proprie preferenze ideologiche più che in seguito a una pacata osservazione della realtà. Succede. Quel che invece costituisce una novità è la reazione, soprattutto statunitense, alla vittoria democratica di Benjamin Netanyahu. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, non ha neppure sollevato la cornetta per congratularsi. Lo ha fatto fare dal segretario di Stato, John Kerry. Il quale non si è trattenuto dal fare la predica al rinnovato premier conservatore riproponendo la solita “soluzione dei due Stati” (lo ha ribadito anche la portavoce di Kerry, Jennifer Psaki) proprio quando Netanyahu ha ribadito che, al contrario, dello Stato palestinese non ne vuol sentir parlare. Per lo meno finché sarà in vita. Escludendo che gli Usa vogliano ammazzare Netanyahu, sono però già iniziate le pressioni (per mano del portavoce di Obama, David Simas) per un “governo di coalizione”. E anche questo è incredibile, perché il Likud ha vinto 30 seggi e può formare un governo stabile, assieme a formazioni minori di destra, senza scendere a compromessi con i laburisti.

Insomma, Barack Obama ha puntato tutto, investimenti e consulenti, sulla vittoria del laburista Herzog. Vincendo Netanyahu, però, non accetta la realtà e mira a invertire il risultato. Fino a che punto si può spingere? La pressione su Netanyahu è già incominciata da ben prima delle elezioni. Solitamente si legge la visita del premier israeliano al Congresso Usa come una “offesa a Obama”. Ma questo solo perché siamo abituati ad ascoltare, dai nostri media, solo la campana obamiana. Se guardiamo allo stesso episodio dall’altra prospettiva, calandoci nei panni del premier israeliano, vediamo che la massima istituzione del potere legislativo americano lo ha ufficialmente invitato a parlare, ma il presidente (potere esecutivo) si è rifiutato di stringergli la mano. Chi si dovrebbe sentire offeso? L’assenza di Obama, il suo rifiuto di incontrare il premier democraticamente eletto di un paese alleato, manco fosse un dittatore ostile, può essere interpretata come una forte forma di pressione su Netanyahu alla vigilia delle elezioni. La mancanza di una telefonata, l’esortazione a formare una coalizione assieme agli avversari sconfitti, l’ulteriore esortazione a fare la pace con i palestinesi, sono il naturale seguito. Ma c’è di più. Dopo il discorso di Netanyahu al Congresso Usa l’intelligence americana ha smesso di condividere i suoi dati con quella israeliana. Il Mossad è solo, attualmente. Questa forma di boicottaggio si potrebbe estendere, nel prossimo futuro, anche all’interruzione dell’assistenza militare? Non è da escludere, considerando che gli Usa hanno fatto cadere Moubarak in Egitto (ed era un dittatore) con la sola minaccia di interruzione degli aiuti militari. Israele è meno dipendente dagli Usa rispetto all’Egitto, ma comunque buona parte dei suoi programmi più costosi, compreso lo scudo antimissile, dipendono dalla cooperazione Usa.

Se per ipotesi, il divorzio fra Usa e Israele dovesse avvenire? Per ora si tratta di un’ipotesi remota, ma è lecito fare ipotesi, comunque. I danni peggiori, molto probabilmente, li subirebbero i nemici di Israele e gli Usa uscirebbero indeboliti, invece che rafforzati, in tutta la regione mediorientale. Già ora l’intelligence americana potrebbe sentire la mancanza della cooperazione del Mossad, l’unico in grado di produrre dati attendibili sulla fluida situazione mediorientale. Netanyahu, in caso di rottura della cooperazione militare, avrebbe mani libere su molti fronti e poco tempo a disposizione per carenza di risorse. La situazione tipica in cui si tende a risolvere tutto molto rapidamente, probabilmente anche con un conflitto decisivo. Un’altra ipotesi altrettanto inquietante è un possibile cambio di alleanze: Russia al posto di Usa. Mosca è alla disperata ricerca di alleati mediterranei, dall’altra parte Israele è piena di russi immigrati che vedono Putin di buon occhio. Se Gerusalemme dovesse riavvicinarsi a Mosca, per la prima volta dal 1950 (da quando, cioè, Stalin iniziò a perseguitare i sionisti), per gli Usa sarebbe una catastrofe geopolitica senza precedenti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:09