Vote for Dave

Ci siamo. General Elections: i giochi di Oltremanica sono più aperti che mai e i sondaggi non riescono a fornire una previsione conforme del responso delle urne. Alti e bassi da una rilevazione con l’altra, gli ultimi conteggi di Lord Ashcroft danno al momento i Tories in vantaggio di sei punti sui Laburisti (36 per cento a 30), con lo United Kingdom Independence Party di Nigel Farage in ritirata in seggi dove ad inizio campagna elettorale era dato per favorito, ma queste percentuali hanno il compito più che altro di far sapere ai Conservatori che è ancora possibile governare per i prossimi cinque anni: occorrerebbe passare in rassegna tutti i marginal seats per comprendere esattamente quante chance ha David Cameron di restare a Downing Street in un sistema elettorale schiettamente maggioritario, in cui il primo che taglia il traguardo si siede a Westminster.

Quanto contano queste elezioni per noi? Beh, molto. In Italia ciò che dovrebbe contenere le anime popolari, liberali e moderate è un vaso rotto, con i proprietari che l’hanno fatto cadere dalla mensola che tentano di spartirsi i cocci rimasti a terra. Se dovessimo sommare le intenzioni di voto tra Forza Italia, Lega Nord e altri, il centrodestra potrebbe tenere il passo del Partito democratico renziano, ponendosi come secondo polo di riferimento, ma i singoli partiti sono al di sotto del 20 per cento che è invece la quota del Movimento 5 Stelle. Non c’è un piano, non c’è una prospettiva, è un miscuglio di resti e crepe hanno generato confusione: il leader leghista Matteo Salvini, il più popolare di quel blocco che fu la maggioranza di centrodestra con Silvio Berlusconi, oltre a preferire Putin agli Stati Uniti e ad elogiare la Corea del Nord perché non ci sono immigrati e nemmeno cellulari. Salvini è, infatti, campione quanto Renzi nei proclami a 140 caratteri su Twitter, avanza vecchie ricette che prevedono la limitazione dello stato per porre rimedio ai danni provocati dallo stato stesso, ma a ben grattare il fondo si intravedono politiche più interventiste che liberiste e ben distanti da un certo pragmatismo anglosassone.

Resta David Cameron come appiglio. Non il miglior primo ministro in circolazione, capo di una banda di esattori secondo Brendan O’Neill che abbiamo intervistato settimana scorsa, ma O’Neill è per sua stessa definizione un libertario-marxista e con tutto il rispetto che abbiamo per l’originalità e vivacità del suo pensiero, non gli andrebbe bene nemmeno un candidato uscito direttamente dai suoi editoriali. Dalla sua, a Cameron, va dato atto di aver sperimentato senza deragliare dai binari del conservatorismo britannico: il progetto del 2010 di Big Society è rimasto una nebulosa, ma di fronte alla crisi economica ha giocato di austerity senza fare retromarcia e ha promosso riforme pesanti nell’istruzione con l’ex ministro Michael Gove, salvo non addentrarsi troppo sui buoni risultati ottenuti dalle free schools durante la campagna elettorale. Ha commesso errori di valutazione in politica estera, ma la special relationship che corre tra Londra e Washington non poteva non farsi sentire nel prendere decisioni su Medio Oriente e Nord Africa. Quella inglese è la capitale più ambita tra le sorelle europee da investimenti d’oltremare e da disoccupati stranieri in cerca di un’opportunità. La crescita economica ha raggiunto i valori più alti da sette anni a questa parte e le previsioni per il 2015 dicono che rallenterà, ma non scenderà. Nel gennaio 2011 2.47 milioni di cittadini dai 16 anni in su era senza lavoro, nello stesso mese quattro anni più tardi erano 1.86, con un tasso di occupazione fissato al 73,3 per cento, il più alto da quando l’Office for National Statistics prende nota dal 1971, e la tendenza resta positiva.

Cameron ha affrontato il referendum sull’indipendenza scozzese, rischiando moltissimo e gli strascichi, nonostante la vittoria del fronte del no nel voto di autunno, si notano molto bene tuttora con lo Scottish National Party al 43 per cento nelle intenzioni di voto nella regione e ormai fondamentale per Ed Miliband per garantirsi un’eventuale maggioranza, mettendo in conto nell’eventualità di dover cedere alle richieste di Nicola Sturgeon. Ha promesso in caso di rielezione quello sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea (qui i sondaggi dicono che la maggioranza sarebbe favorevole, salvo una seria revisione dei rapporti). Per continuare il lavoro iniziato avrà bisogno di un sostegno esterno: di nuovo i liberaldemocratici di Nick Clegg? Uno sguardo rivolto all’Irlanda del Nord? A questo punto poco importa: è chiaro che Cameron è l’alternativa al popolarismo europeo, ovvero quell’insieme che raggruppa forze centriste tiepide e procrastinatrici che compongono buona parte del dna burocratizzato di Bruxelles.

Non è il migliore dei candidati in assoluto, ma lo è rispetto a tutti gli altri.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:50