La manutenzione del terrore

Chi non ha timore di Dio? Noi occidentali miscredenti, edonisti e materialisti. Così, ogni tanto, per ricordarci di aver paura, si attivano ai quattro angoli del globo le spolette della crisi, con una tecnica strategica rodata e consolidata. I bersagli non sono mai scelti a caso, essendo stati studiati per avere un impatto politico ben superiore ai danni realmente inflitti all’Infedele globale. Oggi, a essere colpiti sono il turismo in Tunisia; la sicurezza interna in Francia (per ora...); la libertà di culto in Kuwait e Iraq. Il tutto, fa leva sul carattere di risonanza di certi eventi delittuosi a scopo politico, in modo che si originino delle vibrazioni emotive che, amplificandosi a dismisura, sono in grado di distruggere la fiducia interna degli Stati-bersaglio. In fondo, sono le minoranze più aggressive a fare la storia e tipizzare la loro generazione. Il voto politico nel ‘68 e la rivolta armata nel ‘77, per l’Italia. Il terrorismo islamico, oggi, per il resto del mondo.

Meglio, però, non cadere nella trappola mediatica con discorsi allarmistici a effetto. Infatti: se comparaste nell’ultimo decennio le vittime occidentali (qualche centinaio) con le centinaia di migliaia di musulmani uccisi per mano di loro fratelli in Iraq, Libia, Siria, ecc., vi accorgerete immediatamente da che parte spirano in realtà i venti di guerra. Ripeto che, a mio giudizio, il vero danno che può fare il terrorismo è di seminare il terrore nelle menti di chi lo subisce. Il kamikaze si nutre del delirio di onnipotenza di chi può dare la morte e non teme per la sua. Il ché gli dà un’immensa forza morale, ideologica e politica, rispetto a un avversario “scristianizzato”, senza più fede e timore del divino. Per dire: i miliziani di al-Baghdadi scomparirebbero in un attimo, se mai dovessero affrontarci in campo aperto.

Perciò, dato che la probabilità che uno di noi, qui in Europa e in America, resti vittima di un attentato è notevolmente inferiore a quella di essere coinvolti in un incidente stradale, è meglio adottare un approccio, diciamo così “israeliano” al problema. Innanzitutto, formare il cittadino occidentale a sviluppare una fortissima resistenza psicologica (come si fa con le milizie civili) nei confronti del terrorismo. Poi, in secondo luogo, affinare una temibile capacità tecnica di prevenzione e reazione, in grado di punire con la massima severità, ovunque essi si trovino, esecutori e mandanti. I mantra politici ricorrenti, che mitizzano ora la chiusura, ora l’apertura delle frontiere non servono a nulla. Milioni di musulmani, giovani e aggressivi, pronti a sposare la parte più virulenta della Jihad, hanno la cittadinanza europea.

Il Medio Oriente (Libia, in particolare) trasudano petrolio, che qualcuno vuole comprare a prezzi stracciati, sui mercati clandestini, per milioni di barili al giorno. Questo significa che ci sono enormi ricchezze disponibili per finanziare, a casa nostra, una guerriglia endemica non ortodossa, assai diffusa e di basso profilo, in grado di mantenere altissima la tensione emotiva in tutti i Paesi della Ue. Ma non si tratta di una vera e propria guerra, bensì di una battaglia psicologica: vince chi dimostra nervi d’acciaio e grande fiducia in se stesso e nelle proprie ragioni. Ma, il nocciolo del problema è proprio lì: con quale fede religiosa, con quale apparato ideologico (illuminista?) si affronta questa sfida planetaria che ci pone il fondamentalismo islamico?

La vera novità dell’attentato in Tunisia (e quello dell’altro giorno in Egitto) è questo tentativo dell’Isis di demolire economicamente dall’interno Paesi che sopravvivono grazie al turismo. Oggi, i fondamentalisti controllano immense risorse petrolifere da cui ricavano redditi da nababbi. Questi soldi così abbondanti sono il carburante della jihad. In poco tempo, una volta destabilizzati Paesi “moderati” come la Tunisia, milioni di giovani disoccupati verrebbero armati e foraggiati per spodestare i governi legittimi, surrogandoli poi con le istituzioni caritatevoli della capillare rete di solidarietà islamica (si veda il funzionamento di Hamas in Cisgiordania).

Ultimo punto di questo mio intervento: come mai noi (finora) ce la siamo cavata? Diciamo che i servizi segreti italiani sono molto ben messi, con le loro rodatissime alleanze “oscure” mediorientali, in grado di fare da argine a eventi destrutturanti, tipo Francia, Tunisia, eccetera. Paradossalmente, ci salva il fatto che l’Italia è paragonabile a un’immensa piattaforma girevole, per diffondere il germe islamico a pieno giro di orizzonte in tutto l’Occidente. Qui da noi ci sono abbondanti colonie islamiche sunnite pronte a ospitare eserciti clandestini di agenti silenti, addestrati in altro luogo e pronti a colpire ovunque. In secondo luogo nella strategia fondamentalista prevale, almeno per l’Italia, la strategia di progressiva penetrazione (attraverso flussi sempre più consistenti di immigrazione non qualificata) per la conquista silenziosa dei territori peninsulari, e non solo. Fare attentati a S. Pietro, con centinaia di vittime innocenti, significa scatenare ondate incontrollabili di xenofobia anti-islamica, destinata a chiudere tutti gli attuali “accessi facili” (si pensi al proliferare indisturbato delle moschee e delle predicazioni anti-occidentali dei loro imam).

Invece, la Grecia è il punto focale della crisi europea, in quanto, comunque vada, non potrà mai restituire i prestiti pregressi, nemmeno se i creditori ne accettassero la ristrutturazione del suo debito da qui a cento anni! Del resto, con quali dorsali strutturali produttivo-industriali la Grecia potrebbe mai risollevare la sua economia disastrata? Quanto le ci vorrà per costruire un sistema produttivo-industriale decente? E, nel frattempo, quanto altro enorme debito pubblico avrà dovuto fare, a spese del contribuente europeo? Orbene, in tutto questo, l’Italia come sta messa?

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:56