Turchia: colpo al cuore

Con l’attentato suicida nella piazza Sultanahmet, nel quadrilatero magico di Istanbul, tra la Moschea blu, il palazzo Topkapi, per secoli reggia dei sultani, la basilica di Santa Sofia, nota per la sua gigantesca cupola bizantina e la enorme Cisterna romana costruita dall’imperatore Giustiniano, l’esercito islamico ha inteso colpire al cuore la Turchia. Il paese è entrato nel mirino dei jihadisti dell’Isis, alla pari di tutto l’occidente, dopo che per molto tempo il governo turco era stato accusato di negligenza e persino sospettato di fiancheggiare lo Stato Islamico.

Effettivamente la Turchia era stato il canale naturale di passaggio, indisturbato, per migliaia di giovani stranieri che avevano deciso di abbracciare il jihadismo di Daech; sulle strade turche erano anche transitate le armi e gli equipaggiamenti indirizzati all’esercito islamico, spesso con la compiacenza degli agenti del MIT, il potente servizio segreto di Ankara. Dall’aeroporto internazionale di Istanbul, migliaia di reclute jihadiste provenienti da tutto il mondo hanno raggiunto in aereo o in auto le cittadine di Gaziantep e Sanliurfa, nel sud della Turchia, a poco più di 60 km dalla frontiera con la Siria, dove emissari del Califfato hanno organizzato con minivan, ad ogni ora del giorno, centinaia di trasferimenti fino a Raqqa, la capitale di Daesh in Siria. All’inizio, l’ordine per i poliziotti turchi che sorvegliavano i posti di frontiera era di chiudere un occhio e facilitare il passaggio di quei giovani, dei quali gli apparati di sicurezza turchi conoscevano nomi e destinazioni finali: Ankara sapeva infatti che quei miliziani sarebbero andati a combattere contro Bachar el Assad e contro i Curdi…e il motto “il nemico del mio nemico è mio alleato” è principio accettato anche in Turchia.

La pressione internazionale e gli appelli dei leaders occidentali, primi tra tutti gli americani, con le frequenti missioni ad Ankara del Segretario di Stato, Kerry, hanno poi convinto Erdogan a schierare l’esercito turco lungo i 900 km di frontiera, per tagliare il flusso dei combattenti dello Stato Islamico tra la Turchia e la Siria: gli alti comandi di Ankara assicurano che il confine sarebbe ora in sicurezza, anche grazie alla costruzione di un muro nelle province di Hatay e Gaziantep. Intanto però i jihadisti riescono ancora a passare indisturbati lungo la frontiera, specialmente in senso inverso, dalla Siria alla Turchia; sarebbero transitati così i terroristi, tra cui il presunto organizzatore Abdelhamid Abaaoud, che hanno insanguinato nel novembre scorso il centro di Parigi. 1 Sulle decisioni del governo di Ankara hanno di certo influito anche i pesanti attentati che la Turchia ha subito nel corso del 2015, attribuiti ai jihadisti di Daesh. L’opinione pubblica turca, anche quella che era sempre stata tiepida verso i jihadisti, ha compreso che l’esercito islamico rappresenta una minaccia reale per la sicurezza del paese. Le autorità di polizia hanno così intensificato i controlli sugli ambienti jihadisti turchi. Sono stati chiusi centri religiosi estremisti, sospettati di fiancheggiamento e finanziamento a Daesh, smantellate cellule che gli inquirenti sospettano stessero preparando attentati. Si è di fatto indebolita la struttura logistica jihadista che aveva permesso il trasferimento dei foreign fighters lungo la frontiera. Secondo i dati del governo turco, le forze di sicurezza hanno arrestato e deportato più di 2.500 combattenti terroristi stranieri, intercettati ai posti di frontiera.

Allo stesso tempo, centinaia di siriani, in apparenza migranti in fuga dalla guerra e dal Califfato, attraversano il confine ogni giorno e vengono accompagnati nelle migliaia di campi per i profughi allestiti a pochi chilometri dalla frontiera. Le condizioni igieniche e di sicurezza nei campi sono spesso approssimative, con decine di persone che si ammassano nelle tende. Non è difficile per i membri di Daech confondersi con queste masse; se è vero che è diventato più difficile contrabbandare combattenti verso la Siria, sembra invece molto facile inviare jihadisti verso la Turchia e da lì verso l’Europa, sfruttando i flussi dei rifugiati. Sarebbe arrivato così anche l’attentatore suicida di Istanbul, Nabil Fadli, cittadino siriano, nato in Arabia Saudita. Il ventottenne Nabil, che avrebbe fatto parte di una cellula di Daesh addestrata per compiere attentati in Occidente, aveva varcato la frontiera come un comune migrante e il 5 gennaio scorso aveva chiesto asilo politico in Turchia. Dal campo profughi di Gaziantep, con l’aiuto di alcuni complici avrebbe raggiunto Istanbul, in un viaggio in auto di oltre 800 km.

Gli uomini di Erdogan però non sarebbero così convinti che dietro il kamikaze di piazza Sultanahmet ci sia la matrice di Daesh: il Califfato potrebbe essere solo un paravento. Lo stesso Primo Ministro Davutoglu ha parlato di attori segreti dietro l’attentato e alcuni organi di stampa molto vicini al regime sono arrivati perfino ad adombrare una regia russa. Dopo l’abbattimento, a fine novembre scorso, del caccia Sukhoi russo ad opera degli F16 turchi sui cieli lungo la frontiera con la Siria e il reciproco, durissimo, scambio di accuse tra Mosca ed Ankara, i giornali turchi insinuano spesso che Putin stia tramando ai danni della Turchia con organizzazioni terroristiche attive nella regione assieme al presidente siriano Bashar Assad e all’Iran; allo stesso scopo Mosca inoltre aiuterebbe anche i curdi del Pkk. I curdi, peraltro, sono sempre chiamati in causa dal governo di Ankara dopo ogni attentato in Turchia; sarebbero loro a destabilizzare il paese, molto più dei jihadisti di Daesh, secondo le parole di uomini molto vicini a Erdogan.

La Turchia sta vivendo in questi giorni ore drammatiche; l’attentato di Istanbul ha risvegliato le coscienze e ha spaventato un popolo solitamente sprezzante del pericolo e ha fatto letteralmente scappare via i turisti stranieri. Erdogan e i suoi ministri dovranno ora dare messaggi chiari ed inequivocabili, in patria e verso l’esterno: dovranno continuare ed intensificare la lotta senza quartiere contro i terroristi jihadisti, spazzando via i troppi militanti del Califfato ancora presenti sul territorio turco. Dovranno sciogliere ogni ambiguità su tutti i fronti aperti, dai diritti umani, alla libertà di stampa, al rispetto delle altre confessioni, per guadagnare finalmente la fiducia dell’Europa e ricomporre al più presto i contrasti con la Russia. E’ una strada in salita.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:28