Iran, come si uccidevano gli oppositori in Italia

sabato 6 febbraio 2016


Erano le nove di mattino del 16 marzo 1993, quindici anni dopo la strage di via Fani, quando l’oppositore politico del regime degli Ayatollah iraniani, Mohammad Hossein Naghdi, viene assassinato a Roma in via delle Egadi, a pochi passi dal suo posto di lavoro politico, la sede della resistenza iraniana in Italia.

A poche settimane da questo triste anniversario, ed a 23 anni di distanza, la giustizia penale italiana non è riuscita a dare un volto e un nome ai sicari che stroncarono la giovane vita dell’ex oppositore di Khomeini. Ma nelle due sentenze scritte nel 2006 e nel 2008, di primo grado e di appello, almeno si capisce la catena di comando dei mandanti. Che inizia proprio con una fatwa di Khomeini stesso nei primi anni Ottanta, poi ribadita dal suo successore Khamenei nei primi anni Novanta.

In mezzo alla catena di comando e prima degli attualmente ignoti esecutori, tutto lo staff diplomatico in Italia dell’epoca, a cominciare dall’ex ambasciatore Hamid Abutalebi, oggi capo di gabinetto del leader del presunto nuovo corso di Teheran, Hassan Rohuani. Per l’accusa dell’epoca “l’omicidio di Naghdi deve considerarsi un delitto politico deciso in ambienti governativi iraniani nel quadro di un generale progetto di disarticolazione della resistenza all’estero”.

A parlare del calvario del marito la signora Ferminia Moroni, che rievoca in dibattimento l’angoscia del marito a cominciare da quando, da comunista, appoggiò la rivoluzione di Khomeini da cui poi in seguito venne emarginato prima di essere eliminato. Una storia simile a quella del nonno della fumettista Marjane Satrapi se ci si pensa. Ancora due giorni prima del delitto, il 13 marzo del 1993 moglie e marito incontrano “per caso” altri due barbuti simil-hezbollah a via del Boschetto e costoro apostrofano il malcapitato promettendogli quella morte che avverrà il 16 marzo a via delle Egadi. Naghdi morirà crivellato dai colpi di uno Skorpion. Proprio come Aldo Moro.

“Gia nel 1982, quando un gruppo di hezbollah l’aveva sequestrato in ambasciata, Naghdi aveva intuito che il distacco dal regime e la conseguente azione politica lo avrebbero colpito”, dice la sentenza di primo grado. Nel 1982, subito dopo la decisione di abbandonare il posto all’ambasciata a Roma, il dissidente viene in effetti affrontato da un energumeno (alla fermata dell’autobus) che gli dice che lo avrebbe strangolato con le proprie mani. L’uomo era di chiare fattezze persiane, riferirà poi agli inquirenti la moglie di Naghdi. E la frase è sinistramente simile a quella che l’ex ambasciatore a Roma ed attuale capo di gabinetto di Rohuani avrebbe proferito secondo il racconto di una sorta di pentito della rete dei killer iraniani, tale Abolghasen Mesbahi, arrestato in Germania dopo l’attentato al ristorante Mykonos a Vienna del 13 luglio del 1989. Il sospetto è che avesse partecipato alla strage di iraniani del partito curdo riuniti lì per un summit apparentemente riconciliatorio con emissari del regime di Khamenei e fatti fuori da sicari con il mitra dopo il pasto come in un’imboscata mafiosa. Mesbahi inizia a parlare due anni dopo la morte di Naghdi, cioè nel 1995, e racconta che Abutalebi gli avrebbe personalmente detto di volere uccidere Naghdi con le proprie mani “perché lo conosceva personalmente”. Abutalebi proveniva dai famigerati pasdaran della rivoluzione.

Il problema del processo fu tutto sull’individuazione della vera identità di questo Assl Mansur Amir Bozorgian, presunto capo della cellula incaricata di uccidere i dissidenti in Italia, e di stanza all’ambasciata a Roma. Il suo nome venne fatto proprio da Mesbahi. Le varie rogatorie con cui la polizia tedesca interrogò Mesbahi alla fine si rivelarono però contraddittorie. Soprattutto sulla vera identità dei membri del commando che il pentito sosteneva di avere incontrato raccogliendone le confidenze. E alla fine questo Bozorgian, che neanche si sapeva se si chiamasse davvero così, fu assolto in primo grado. E in appello addirittura fu prosciolto perché non era sicura neanche l’identificazione.

Resta il quadro descritto dai giudici di primo e di secondo grado in realtà molto inquietante sulla presenza di killer di Teheran in tutta Europa, a cominciare dall’Italia, e tutti alle dipendenze delle ambasciate locali trasformate in covi spionistici più che in luoghi diplomatici. Oggi quegli uomini che negli anni Ottanta e Novanta uccidevano gli oppositori di Khomeini prima e di Khamenei dopo hanno tutti acquisito meriti agli occhi del moderato premier Rohuani.

@buffadimitri


di Dimitri Buffa