Rivoluzione iraniana

giovedì 11 febbraio 2016


A ogni generazione il suo compito, alla gioventù iraniana instaurare la democrazia in Iran. Sebbene la lotta per la democrazia in Iran abbia avuto inizio da più di un secolo e non sia mai cessata, in realtà, sino ad oggi la democrazia non c’è mai stata. Quando, il 7 ottobre del 1906, ci fu la prima seduta del parlamento in Iran, nello stesso tempo i paesi stranieri, Russia ed Inghilterra, insieme al governo locale, picconavano le fondamenta di quello che poteva essere l’embrione della democrazia. Da allora sono accadute molte cose in Iran, ma la democrazia non è mai stata attuata, il compito di portare la democrazia per l’Iran grava tuttora sulle spalle dei patrioti di questo Paese di antica cultura. Durante lo scorso secolo più volte l’Iran è arrivato ad un passo dall’obiettivo, ma ogni volta è stata sconfitta. Nel 1979 sembrava l’occasione giusta, ma nell’ultimissima fase di quella magnifica rivolta contro la dittatura monarchica arrivò Khomeini, forte dell’efficace appoggio dell’Occidente, alla guida della rivoluzione, che una volta caduto lo sciah, instaurò in Iran la più nera delle dittature: la Repubblica islamica, il regno assoluto del velayat-e faghih. Una rivoluzione nata con istanze democratiche, dopo la vittoria ha preso l’impronta religiosa. Negli anni Sessanta e Settanta, quando leggere un libro sbagliato poteva causarti la morte, i giovani iraniani per poter fare la politica furono costretti a prendere le armi; era opinione comune che dopo la caduta del dittatore si potesse dire addio alle armi per sempre. Ma non andò cosi.

Khomeini solo dopo poche settimane dalla caduta dello sciah cominciò a dettare le sue volontà reazionarie e soffocanti. Le parole di Khomeini in sostanza furono molto chiare e semplici: bisognava adeguarsi alle sue arbitrarie, capricciose e assurde regole, oppure subire mortali punizioni. Le diverse forze esistenti in quel periodo in Iran presero ognuna una propria strada; tra queste l’organizzazione dei Mojahedin del popolo scelse la via più moderata: strappare al regime despota spazio e tempo per fare politica. La priorità per i Mojahedin del popolo era, almeno in quel momento storico, non avere lo scontro frontale con il regime “islamico”. Durante quel periodo, dall’11 febbraio del 1979 al 20 giugno del 1981, gli uomini di Khomeini picchiavano a morte i membri e simpatizzanti dei Mojahedin del popolo, facendo almeno cinquanta morti e decine di migliaia di feriti.

Quando i Mojahedin del popolo ebbero occasione di partecipare alle elezioni, semi- democratiche con risultati assai manipolati, raccolsero milioni di voti; il loro giornale, “Mojahed”, stampato e distribuito in semi clandestinità, superava la tiratura di mezzo milione di copie contro i giornali ufficiali del Paese che non andavano oltre le 25mila copie. I Mojahedin del popolo, con i loro giovani simpatizzanti e sotto gli attacchi più feroci dei bastonatori mandati dai mullà, portavano avanti istanze democratiche e critiche al potere che, dopo la rivoluzione, aveva presa una direzione decisamente contraria agli obiettivi iniziali. In questo periodo tutte le manifestazioni dei Mojahedin del popolo furono assolutamente pacifiche, nonostante le risposte violente del regime alle loro azioni. Ad una manifestazione organizzata dai Mojahedin del popolo, con il passa parola, visto che il regime aveva vietata qualsiasi manifestazione, parteciparono 500mila persone. Khomeini ordinò di sparare contro i pacifici manifestanti, provocando decine di morti. Era il 20 giugno del 1981.

Il regime khomeinista dichiarava la guerra al popolo iraniano. Si poteva scegliere tra la resa totale e incondizionata o la resistenza. I Mojahedin del popolo scelsero la resistenza. Quando il regime ogni alba fucilava a centinaia, i Mojahedin presero le armi per difendersi e difendere la dignità di un popolo. Man mano che la resistenza armata prendeva corpo, si sentiva il bisogno di organizzare i guerriglieri. Per questo i gruppi armati si posizionavano nelle folte foreste del Nord e nelle alte montagne in Kurdistan. Mentre il regime decimava senza badare alle vite umane da una parte o dall’altra, le forze della resistenza dovettero ritirasi verso le frontiere iraniane con l’Iraq, in quel periodo in guerra con l’Iran, per poter meglio affrontare i pasdaran, i famigerati guardiani della rivoluzione del regime.

Il 20 giugno del 1987 nasce l’Esercito di liberazione iraniana al confine fra Iran ed Iraq, in territorio iracheno. Nel frattempo l’opposizione iraniana aveva negoziato e firmato un piano di pace con il governo iracheno che, dopo l’aggressione iniziale, mostrava realmente la sua volontà per un cessate il fuoco. Il cessate il fuoco avvenne il 18 luglio del 1988, solo quando il regime iraniano vide che l’Esercito di liberazione era abbastanza cresciuto per affrontarlo a Teheran.

Nei primi mesi del 2003, quando l’attacco delle Forze multinazionali all’Iraq prendeva corpo i rappresentanti dei Mojahedin del popolo avevano dichiarato esplicitamente alle autorità competenti che in caso di guerra sarebbero rimasti neutrali nel conflitto. Ribadivano a chiare lettere e ancora una volta che la loro presenza lì, in piena autonomia, era per combattere il regime dittatoriale iraniano. Dopo la caduta del regime iracheno, su richiesta concordata precedentemente col regime iraniano, le forze alleate bombardarono pesantemente le basi dell’Esercito di liberazione, con decine di morti. Il quotidiano Wall Street Journal scrisse, il 17 aprile del 2003: “Nel tentativo di persuadere l’Iran a non intromettersi nella questione irachena, le forze statunitensi hanno bombardato i campi dell’opposizione iraniana”. Ci fu una politica miope e perversa, conseguenza dell’incapacità dei governi occidentali nel conoscere il regime dei mullà. Mentre le forze alleate, in particolare gli Stati Uniti e l’Inghilterra, avevano assolto i loro impegni con l’Iran, il regime iraniano invece spedì in Iraq decine di migliaia di suoi uomini, molti di origine irachena da anni residenti e addestrati in Iran; il regime dei mullà effettuava una strisciante e continua occupazione dell’Iraq; il regime integralista iraniano si posizionava nei meandri della società, nelle diversificate azioni terroristiche e negli alti ranghi delle istituzioni irachene.

Dopo i massicci bombardamenti a cui non rispose, l’Esercito di liberazione firmò un accordo con le forze statunitensi: gli appartenenti dell’Esercito di liberazione iraniana furono disarmati e raggruppati in una delle loro basi, quella più grande, Ashraf, che prima del 1986 era un desolato deserto privo di segni di vita, che invece aveva ormai le sembianze di una vera e propria città.

Le richieste isteriche contro i Mojahedin del popolo che avanzava il regime integralista verso i negoziatori sono note a tutti. Il risultato dei governi occidentali che prendono la parte della più feroce dittatura teocratica, anziché la parte del popolo e la sua resistenza organizzata e democratica, è sotto gli occhi del mondo. Dopo l’intervento militare in Iraq e la caduta del regime di Saddam Hussein, i mullà iraniani trovarono terreno fertile e senza alcun ostacolo per l’espansione del loro integralismo. Hanno cavalcato il giochetto, sciiti contro sunniti, che piace tanto agli occidentali, ed hanno infestato tutto il Medio Oriente. Da questo humus nasce l’Isis, proprio in Siria e in Iraq, dove sono presenti massicciamente i pasdaran iraniani.

Nell’anniversario della caduta della dittatura monarchica in Iran, avvenuta l’11 febbraio del 1979, si può sperare che il popolo iraniano rovescerà questa angusta sorte. Visti i tumulti in ogni parte dell’Iran, perfino nelle carceri più disumane, c’è da credere che la primavera della democrazia mediorientale nascerà in Iran, e se l’Occidente smetterà di esportarci la “democrazia” gliene saremo grati. Sì, è vero: beato il popolo che non ha bisogno di eroi, ma è vero anche: guai a quel popolo che non ha eroi. La Terra dell’Iran ha i suoi eroi!


di Esmail Mohades