Cina: espansionismo  militare a Gibuti

Della serie: notizie che non fanno notizia. Un mosaico di “notiziole”, pubblicate qua e là, passano inosservate, ma messe insieme danno il senso di una “politica”, di una strategia; peccato restino confinate in ristretti circoli di specialisti e analisti: perché aiutano a capire quello che accade, al di là delle declamazioni di tanti “esperti” che ci illuminano con straordinarie analisi tipo: “La guerra è brutta e la pace è bella”.

Si è troppo radicali nel giudizio? E allora, chi radicale non è si legga “Bloomberg BusinessWeek”: da mesi, numero dopo numero, ricorda che la “Cina è protagonista di una massiccia ristrutturazione della sua politica estera e militare”. Una ristrutturazione che guarda verso l’Africa, considerata evidentemente vero e proprio territorio di conquista.

Passi poi a “Foreign Affairs”: l’autorevole rivista statunitense avverte che il volume d’affari negoziato tra Cina e affamatissimi regimi africani disposti a tutto è di circa 200 miliardi di dollari. In parallelo, si sfogli il “New York Times”: il giornale calcola che la spesa militare di Pechino ogni anno aumenta di circa il 9,5 per cento (il complesso militare-industriale non è solo yankee), e attualmente oscilla sui 145 miliardi di dollari.

Sempre Pechino, senza troppo clamore ad un recente forum di cooperazione Cina-Africa, con il presidente Xi Jinping, fa sapere che intende investire almeno sessanta di miliardi di dollari nel Continente africano. Una “penetrazione” che si concretizza, per esempio, con accordi per la costruzione della prima base navale cinese oltre confine: a Gibuti. È appena il caso di sottolineare che Gibuti si affaccia sul Golfo di Aden, lì transita circa il 40 per cento del traffico commerciale tra Asia ed Europa. Pechino dice che “gli impianti aiuteranno la Cina a collaborare con l’Onu per il mantenimento della pace nell’area”.

Ora e sempre vale il buon vecchio detto: “Follow the money”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:04