Populismi, élites, istituzioni

Ahimè, sì, i populismi dilagano. Anche in Austria, dove pure le ultime elezioni hanno segnato un loro arresto, il torbido rigurgito fa presa su metà del Paese. Negli Stati Uniti i sondaggi danno il populista estremo (forse il più estremo), Trump, in testa rispetto alla Clinton. Per quanto la si potesse (e la si possa) stimare per la sua sicura conoscenza dei più intimi segreti della politica e dunque per una esperienza che non potrebbe che essere necessaria al suo Paese e al mondo, è stato forse un errore candidare Hillary: anche in America, l’opinione pubblica è stanca della politica e delle sue più solide e accreditate personificazioni, del suo eterno establishment, e persino un uomo così poco credibile come Trump può convincere e conquistarsi un consenso, magari solo rabbioso e in negativo: un consenso protestatario, che mette in discussione l’antica e solida certezza, di cui – anticipando sull’uscita di un suo libro – ci fa partecipi con un suo articolo sul “Foglio” (31 marzo u.s.) Mattia Ferraresi. A suo avviso, al centro dell’esperienza storica degli Usa “abita l’idea dell’unione, un tutto organico che supera lo schema degli interessi di parte, proiettando sullo schermo della storia umana una nuova dimensione del vivere civile, lontana dalle faziose degenerazioni europee”: oggi, tale secolare certezza appare scossa e fragile. La Francia ha la sua consolidata dinastia Le Pen e, infine, tra pochi giorni vedremo se l’ondata populista e antipolitica travolgerà anche la Gran Bretagna, provocando una “Brexit” che avrà effetti catastrofici, non solo per la Gran Bretagna ma per l’Europa tutta.

Populismi, dunque: veri e propri tsunami psicologici, sociologici o antropologici, in ogni parte del mondo (anche il Sud America ha, in questo senso, i suoi guai). Porteranno sicuramente, quanto meno, una lunga stagione di insicurezze, politiche ed economiche, che potremmo definire il rovescio o la contropartita della globalizzazione: perché proprio alla globalizzazione (tecnologica ed economica...) viene attribuita la responsabilità finale dell’inquietante fenomeno. Ma, attenzione: è responsailità, o non piuttosto merito? Non mi stupirei se qualcuno, alla fine, arrivasse a sostenere che il fenomeno dell’insorgenza dei populismi è un dato positivo, basta saperlo leggere. Benedetto Croce diceva che non si fa storia del “negativo”. Anche in quanto sta accadendo oggi e che ci pare incomprensibile e, in definitiva, irrazionale, forse si potrà (o si dovrà) trovare una ragione “positiva”, una “giustificazione”. Insomma, prima o poi forse anche qui troveremo una conferma dell’hegeliano “ciò che è reale è razionale”.

È comunque vero he qualcosa, se non l’intero mondo come lo conoscevamo fino a ieri, si sta dissolvendo. Poiché non sembra possibile (o non sembra a me possibile) dipanare un filo rosso che ci conduca a capire quanto avviene, mi rifaccio ad un esempio noto: la dissoluzione dell’Impero romano con la penetrazione (e definitiva loro installazione) dentro i suoi confini di popolazioni che non potevano certo competere, per sviluppo civile. Gli stessi protagonisti o coevi di quelle vicende si chiesero sgomenti come potesse accadere che Roma, la millenaria e sacra capitale, venisse saccheggiata da orde di barbari (410 p.co, ad opera dei Visigoti di Alarico). Fu Sant’Agostino a trovare una risposta. Vera o “falsa” che fosse, frutto di una fantasia politica unica ed eccezionale, la visione agostiniana plasmò di sé le vicende successive, la storia dell’Europa intera. Le “invasioni barbariche” diedero luogo a formazioni culturali diverse ma positive, nuclei di formazioni nazionali e culturali che hanno anche esse fatto la storia, sono stati fenomeni grandiosi.

Non so se oggi c’è in giro un equivalente di Sant’Agostino capace di spiegarci quanto sta accadendo: comunque non si torna indietro dalla globalizzaione, tutte le tecnologie della comunicazione spingono per il suo ulteriore sviluppo. In questo quadro, due sono - mi pare - i problemi da risolvere, i nodi da sciogliere per avviare una storia “diversamente” normale: il problema delle élites e quello delle istituzioni. In un recente editoriale sul Corriere della Sera (25 maggio u.s.), Antonio Polito sosteva “l’alternativa alle secessioni europee (cioè alla diaspora provocata dai populistmi, ndr) dovrebbero essere loro, i governi dell’Europa Carolingia, del nocciolo duro, dei sei Paesi fondatori...”. Ma come è possibile chiedere a quanti sono profondamente coinvolti nella crisi di risolverla? Anche loro sono parte del problema. Però, poi, a fianco della crisi delle élites c’è la crisi delle Istituzioni, in primo luogo degli Stati Nazionali. Questo problema è particolarente grave in Europa: nessuno dei Paesi europei, dall’Italia alla Francia alla stessa Germania o all’Inghilterra gode più della fiducia dei suoi cittadini, ed è delegittimato al ruolo che pretende di rappresentare nel concerto internazionale.

Dunque, i populismi non sarebbero che un effetto – non una o “la” causa – della crisi attuale. E non è sicuro che la globalizzazione sia un fenomeno solo negativo, su cui rovesciare tutte le responsabilità. Allora, dove cercare le radici della crisi? E soprattutto, come individuare una soluzione, o un “pacchetto” di soluzioni possibili e affidabili? Ma qui il serpente si morde la coda. Perché la risposta dovrebbe essere: “occorrono élites lungimiranti e coraggiose...”. Appunto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:11