Politici e santoni dietro il golpe turco

Dopo il fallito golpe in Turchia, si sono sprecate analisi e contro-analisi d’ogni risma, per lo più focalizzate non tanto sui militari ribelli, quanto sulla successiva repressione messa in atto dal presidente Recep Tayyip Erdoğan; e in particolare l’attenzione mediatica si è concentrata sulle “epurazioni” di diverse migliaia di persone – magistrati, insegnanti, rettori di Università, poliziotti, oltre che, ovviamente, militari – che sono stati o licenziati o sospesi dai loro incarichi in quanto conniventi con i golpisti. Un fenomeno che, per le sue dimensioni, ha indiscutibilmente sconvolto gli osservatori occidentali, soprattutto quelli che hanno ben poca dimestichezza con il cosiddetto “Stato Profondo” turco. Una definizione che sembra risalire proprio a Mustafa Kemal Atatürk, il padre della moderna Repubblica di Turchia, che con essa indicava un insieme di poteri – esercito, magistratura, cultura, scuola, informazione… – che esorbitano dalla pura sfera democratica, ma che costituiscono, comunque, l’ossatura portante dello Stato. Un concetto che va tenuto ben presente se si vuole comprendere ciò che realmente sta accadendo ad Ankara e dintorni in queste ore.

In sé lo “Stato Profondo” costituisce l’elemento capace di dare continuità alla politica del Paese al di là dell’alternanza dei governi e dei leader; soprattutto garantisce, o dovrebbe garantire, una stabilità di fondo, un solido radicamento all’identità nazionale. Tuttavia, proprio perché, di fatto, extra-democratico, questo Stato Profondo potrebbe divenire, se manipolato da qualcuno, strumento per evertere la democrazia e/o condizionarla dall’interno. Ed è proprio questo rischio che, secondo alcuni analisti, è affiorato con il fallito golpe. E si tratterebbe di una minaccia molto più difficile da sventare di quella rappresentata dai carri rmati per le vie di Istanbul ed Ankara.

A caldo, appena scampato alla defenestrazione – e, a quanto sembra, anche al tentativo di assassinarlo – Erdoğan ha subito puntato il dito contro Fethullah Gülen, il tycoon dei Media, suo antico sodale, che da due decenni si è ritirato in dorato esilio negli Stati Uniti; ai quali Ankara chiede oggi di estradarlo, in quanto mandante, per lo meno sul piano morale, del tentativo di colpo di Stato. Ora, non sappiamo se vi siano prove del diretto coinvolgimento di Gülen nella congiura, né siamo in grado di prevedere che piega prenderà la diatriba legale fra Ankara e Washington. Tuttavia pensiamo che sia utile fare un po’ di chiarezza su questa figura, intorno alla quale in questi giorni si è sentito dire un po’ di tutto.

Gülen, innanzitutto, è un leader politico-religioso di notevole rilievo, ma non è un maestro del sufismo; figlio di un imam, è stato a lungo considerato un “vaiz”, un predicatore ed autorevole esegeta del Corano e della Sharia, ruolo dal quale ha dato vita al suo movimento, Hizmet (“Il Servizio”), che conta una fitta rete di aderenti sia in Turchia sia in altri Paesi islamici. Movimento culturale, politico e religioso che ha le caratteristiche di una Confraternita, ma che non è una scuola dei mistici sufi. Sufismo con il quale Gülen ha certo relazioni, ma non più di tutto il resto dell’Islam turco, che dalle scuole sufiche, appunto, è stato storicamente fecondato. Il carattere di Hizmet, piuttosto, sembra quello di un incrocio fra un movimento di riforma culturale ed una società segreta, una specie di massoneria in versione islamica.

La vulgata comune vuole che il leader islamico sia un liberale, e per questo in rotta con l’autoritario Erdoğan. Ora, certamente Gülen non è né un salafita né un wahabita, ed è sempre stato contrario al radicalismo jihadista, arrivando, anzi, a sostenere la compatibilità tra Islam e democrazia; tuttavia questo deriva dall’humus comune a tutta la tradizione turca, che affonda nella scuola giuridica Hanafita e nella tariqa sufi Bektashi, per loro natura e impostazione antitetiche al rigorismo dei salafiti/wahabiti arabi. Ma questo non fa, automaticamente, di Gülen un liberale e un democratico. Anzi, tutta la sua storia personale è quella di un leader politico-religioso che ha sempre lottato contro il laicismo repubblicano, ed il cui fine dichiarato è sempre stato quello di smontare le riforme moderniste di Atatürk. Di qui il suo appoggio a tutti i partiti di ispirazione islamica apparsi negli ultimi decenni sulla scena politica turca. Appoggio particolarmente influente visto che il nostro è un potentissimo tycoon che controlla – o meglio controllava – buona parte dei mass-media, nonché il promotore di una fitta rete di scuole ed Università che forgiano le giovani generazioni. Tant’è vero che già negli anni Ottanta fu accusato di cercare di sovvertire l’ordine repubblicano, accusa che lo spinse ad auto-esiliarsi negli Usa, dove intratteneva molte ottime relazioni, anche in forza del fatto che, durante la Guerra Fredda, aveva costituito l’Associazione per la lotta contro il Comunismo, molto ben vista da Washington e altri “palazzi del potere” statunitensi. Foggy Bottom e Langley inclusi.

Dall’accusa di essere un eversore Gülen fu, peraltro, prosciolto solo dopo che al governo era andato l’Akp, al cui successo aveva non poco contribuito. Con Erdoğan, però, dopo un buon inizio, i rapporti sono andati progressivamente deteriorandosi, vuoi per la legge dei due galli che non possono coesistere nello stesso pollaio, vuoi perché il leader religioso trovava troppo tiepido l’islamismo di quello politico. Tant’è vero che Gülen cominciò a criticare Erdoğan perché questi, alla fin fine, non smantellava con decisione la Repubblica laica fondata da Atatürk. Di qui alla guerra aperta il passo è stato breve. Nel 2013 Erdoğan ha pubblicamente accusato l’antico amico di aver manovrato magistrati e poliziotti per montare accuse di corruzione che colpirono molti esponenti dell’Akp, mettendo il governo in difficoltà. Oggi, ovviamente, lo taccia di essere il mandante morale del tentativo di colpo di Stato – e anche di quello di assassinarlo – e ne approfitta per cercare di dare un colpo mortale all’influenza di Gülen nello Stato Profondo turco. Ovvero nei media, nella magistratura, nelle Università...

Cose, come si può comprendere, molto, ma molto turche, per interpretare correttamente le quali si ha bisogno di conoscenze precise e strumenti culturali non improvvisati. Per inciso, se ne discuterà diffusamente con esperti e diplomatici sia italiani che turchi, nel prossimo workshop de “Il Nodo di Gordio” che si terrà dal 29 al 31 luglio a Montagnaga di Piné sopra Trento.

(*) Think tank “Il Nodo di Gordio

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:02