Perché ho lasciato il Partito repubblicano

martedì 26 luglio 2016


Il Partito repubblicano ha nominato Donald Trump come suo candidato alla presidenza degli Stati Uniti e io ho reagito a questa nomina ponendo fine a 44 anni di affiliazione al Gop. Qui di seguito vi spiego perché ho abbandonato la nave repubblicana.

Innanzitutto l’indole rozza, egoista, puerile e ripugnante di Trump, insieme alla sua ignoranza altezzosa, all’improvvisazione in materia di scelte politiche e alle tendenze neofasciste ne fanno il più controverso e inquietante di tutti i candidati alle presidenziali della storia americana. Egli è esattamente il tipo di “uomo che i padri fondatori temevano”, parafrasando la memorabile frase di Peter Wehner. E io non voglio avere alcun ruolo in questo.

In secondo luogo, la sua incoerenza (“Tutto è negoziabile”) implica che, da presidente, egli avrebbe il mandato di fare ciò che vuole. Questa prospettiva terrificante e senza precedenti potrebbe voler dire perseguire penalmente i giornalisti ostili o esercitare forti pressioni su un Congresso recalcitrante. Inoltre, potrebbe anche tradursi in legge marziale. Ma questo senza il mio voto.

In terzo luogo, con rispettabili eccezioni, desidero prendere le distanze dalla dirigenza del Partito repubblicano che si è riconciliata con Trump al punto di reprimere ingiustamente gli elementi presenti alla convenzione di Cleveland che continuavano a opporsi alla sua nomina. Sì, i politici e i donatori devono concentrarsi su questioni scottanti (la nomina dei giudici della Corte Suprema), ma i leader di partito, come il presidente del Comitato nazionale del Partito repubblicano Reince Priebus, il presidente della Camera dei Rappresentanti Paul Ryan e il capo della maggioranza al Senato Mitch McConnell, hanno erroneamente assecondato Trump. Come osserva ironicamente l’editorialista Michael Gerson. Trump “ha tacciato l’establishment repubblicano di essere rammollito e privo di polso. Ora i leader repubblicani si schierano con lui, come rammolliti e privi di polso”.

In quarto luogo, la fazione conservatrice, di cui faccio parte, a partire dagli anni Cinquanta è diventata una grossa forza intellettuale. E questo è stato possibile sviluppando alcune idee fondamentali (un governo limitato, un ordine morale e una politica estera che riflette gli interessi e i valori americani). Ma l’abisso culturale e l’incubo costituzionale di una presidenza Trump potrebbe distruggere questa fragile creazione. Paradossalmente, anche se con una Hillary Clinton al timone della Casa Bianca si potrebbe correre il rischio che alla Corte Suprema vengano nominati dei cattivi giudici, questo lascerebbe intatto il movimento conservatore.

E infine, riprendendo le parole del donatore repubblicano Michael K. Vlock, Trump è “uno spaccone ignorante, amorale, disonesto e manipolatore, misogino, donnaiolo, iper-litigioso, isolazionista e protezionista”. Quest’allettante lista delle sue qualità implica che il fatto di appoggiare Trump non permetterà più ai repubblicani di criticare un democratico per il suo carattere. Oppure in termini più personali, occorrerà chiedersi come sarà ancora possibile guardarsi allo specchio.

E così, con la nomina ufficiale di Trump, ho abbandonato la nave repubblicana. Affinché il Partito repubblicano possa ritrovare la propria anima, occorre che Trump venga battuto a novembre. Una volta libero dalla sua influenza, il partito di Lincoln e Reagan potrà ricostruirsi. Nel frattempo, appoggerò altri candidati repubblicani, in particolare, l’eccellente senatore della Pennsylvania Pat Toomey. Per quanto riguarda le presidenziali, il mio sostegno andrà a un outsider come il libertario Gary Johnson, oppure non esprimerò alcuna preferenza.

 

(*) Traduzione a cura di Angelita La Spada


di Daniel Pipes