Crimea: il pericolo corre sul filo

In Crimea la tensione è salita alle stelle. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito d’urgenza per discutere delle accuse che la Federazione Russa e l’Ucraina si sono rimpallate. Mosca denuncia l’infiltrazione in Crimea di squadre di sabotatori inviati dal ministero della Difesa ucraino allo scopo di destabilizzarne il legittimo governo indipendente. Kiev ribatte sostenendo che sia la Russia a cercare pretesti che giustifichino l’escalation bellico sul suolo ucraino. Il presidente Petro Poroshenko ha ordinato alle truppe dispiegate nell’area lo stato di massima allerta. Le cancellerie occidentali seguono con preoccupazione l’evolversi della crisi. Il pericolo è che un’offensiva degli ucraini in Crimea sarebbe considerata da Mosca un esplicito atto di guerra, giacché dal 2014 la Repubblica di Crimea è Russia a tutti gli effetti. Vladimir Putin sa bene che una guerra a ovest indebolirebbe la leadership che ha conquistato con sempre maggiore autorevolezza sullo scenario siriano e in generale nella lotta al terrorismo di matrice islamica. Tuttavia, in presenza di un attacco deliberato al territorio della penisola della Crimea non potrebbe far finta di nulla. Sarebbe costretto a reagire in forza della clausola del Trattato d’Adesione che sancisce il diritto alla protezione per la piccola Repubblica del Mar Nero, entrata nella galassia della Federazione Russa.

È del tutto evidente che sia il governo di Kiev a voler spingere la crisi fino al punto di non ritorno. Il perché di questa tattica scellerata è intuibile: c’entra la campagna per le presidenziali negli Stati Uniti. Finora il presidente Poroshenko ha contato sulla granitica certezza di avere l’amministrazione di Washington dalla sua. Ora però Donald Trump, candidato alla Casa Bianca che si è guadagnato dai suoi detrattori il titolo dispregiativo di “amico di Putin”, ha dichiarato che, in caso di vittoria, si spenderà per la ricucitura dei rapporti con il Cremlino. Ciò comporterebbe l’immediata perdita di appeal per la realtà ucraina la cui economia, totalmente disastrata, regge esclusivamente grazie al fiume di denaro erogatole dal Fondo Monetario Internazionale proprio su pressione degli Stati Uniti.

Se a novembre vincesse Trump, dunque, l’Ucraina cesserebbe di essere strategica per gli interessi americani e lo spregiudicato Poroshenko si troverebbe a governare uno Stato per il quale “la scelta europea” è rimasta solo un titolo. Nel Paese dell’Est-Europa nulla è cambiato nella obsoleta struttura burocratico-istituzionale manovrata dagli interessi privatistici degli oligarchi, i quali continuano a tenerla in scacco attraverso il controllo di vasti settori dell’economia pubblica: dall’energia, alle banche, alle comunicazioni. La possibilità di un cambio di rotta di Washington deve aver indotto il governo di Kiev, preso dal panico, a tentare la carta della deflagrazione dell’area con la certa conseguenza di un trascinamento dell’Occidente in una guerra totale alla Russia. La disperazione che sta condizionando le mosse di Poroshenko ricorda quella della giunta militare argentina del generale golpista Leopoldo Galtieri che, nel 1982, tentò un improvvido assalto alle Falkland nel disperato tentativo di sedare la montante rabbia popolare per la crisi economica con l’oppio dell’orgoglio nazionalista. Le Falkland, britanniche sebbene reclamate come proprie dall’Argentina, sono isolette sperdute nell’oceano Atlantico mentre la Crimea è la porta orientale al Mediterraneo ed è sede della potente flotta russa del Mar Nero.

Possiamo permetterci il lusso che la situazione sfugga di mano solo per assecondare le rivendicazioni territoriali di un governo ucraino incapace di autoriformarsi dando vita a una governance modernizzatrice, in linea con gli standard europei? L’Ucraina a noi italiani è già costata cara. Facciamo almeno che non ci trascini nel baratro.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:10