E Hillary Clinton   pareggia fuori casa

Chi ha seguito le primarie del Partito Repubblicano sa bene che ogni dibattito si è sempre trasformato in una monumentale discussione su Donald Trump. Quanto è impresentabile, quanto è insopportabile, quanto consenso comunque riesce ad avere. Il primo dibattito presidenziale si è aperto con le stesse, identiche premesse. E con uno sparring partner salito sul ring in pessima forma, fisica e politica.

Hillary Clinton è, infatti, reduce da un paio di settimane terribili. Il malore a Ground Zero l’undici settembre ha fatto diventare la sua salute un argomento di discussione centrale in questa campagna elettorale, sollevando più di qualche dubbio sulla sua tenuta fisica in momenti di stress elevato. Lei è sparita dalla scena, ricomparendo sotto i riflettori della Hofstra University per sottoporsi alle domande di Lester Holt. La prestazione dell’ex segretario di Stato è stata convincente. Ha, sorprendentemente, attaccato per prima, dimostrando una vivacità e aggressività sin qui tenuta ben nascosta. Trump si è difeso, un paio di volte ha evitato di affondare il coltello ed è parso più preoccupato di non commettere errori madornali che di sferrare il colpo del Ko.

La domanda in questi casi è sempre la stessa. Chi ha vinto? La risposta, al solito, non può prescindere da una valutazione più ampia: questa non è una partita di calcio, né un match di football americano. È una maratona. Per di più a tappe. Trump è apparso impreparato, per nulla presidenziale, a tratti fuori contesto. Ma non ci sono state novità rispetto a quel che già si sapeva. Clinton è sembrata iper-preparata, molto a suo agio nel format ma non ha allargato di un millimetro la sua base politica di riferimento. Continua e continuerà ad avere problemi con la classe media bianca e con i millennials e nei novanta minuti di discussione non è mai riuscita a cambiare la percezione di un candidato molto serio ma anche molto tradizionale. Al netto dei sondaggi, ai punti ha vinto lei. Ma questa contesa elettorale non è una questione di merito delle cose ma di sensazione. E la sensazione finale è quella iniziale: un candidato dell’establishment sfidato apertamente dall’esponente di un’America impaurita e arrabbiata. Niente di nuovo sotto il sole e soprattutto niente di nuovo sotto i riflettori del nuovo dibattito.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:03