Al ministro degli Esteri, Jean-Marc Ayrault

Mi permetto di scriverle questa lettera aperta alla luce dell’ennesimo attentato terroristico palestinese che ha ucciso quattro giovani israeliani e ne ha feriti molti altri, in un attacco stranamente simile a quello di Nizza del luglio scorso, e alla vigilia della “Conferenza di Pace per il Medio Oriente” che lei ospiterà a Parigi tra pochi giorni. Lo faccio col massimo rispetto: provengo da una famiglia francofona che affonda le sue radici nella Francia e nella cultura francese. Lo faccio in quanto rappresento l’American Jewish Committee, un’Organizzazione che ha dialogato ai massimi livelli con la Francia per decenni, e che anche quando si è trovata in forte disaccordo si è sempre dissociata tra chi nella comunità ebraica proponeva boicottaggi o spargeva notizie false sulla situazione nel suo Paese. E lo faccio, se posso permettermi, in quanto proprio come lei desidero una soluzione duratura al conflitto israelo-palestinese, che sia basato idealmente su una soluzione a due Stati.

Per quanto mi riguarda, non si tratta dell’ennesimo pantano geopolitico da cui tentare di uscir fuori. In quanto ebreo, sento di possedere un legame metafisico con una terra ancestrale che è da sempre in cerca di pace, e che è la patria odierna di molti tra i miei parenti e amici più stretti.

Signor ministro, la prego di capire i motivi per i quali abbiamo sperato che l’incontro di Parigi venisse cancellato. Come disse l’impareggiabile François de La Rochefoucauld, “è più facile essere saggi riguardo gli altri che riguardo noi stessi”. Con tutto quello che sta accadendo in Europa oggi, è proprio questa la questione che richiede un così grande investimento di sforzi ed energie?

Presto l’Unione europea celebrerà il sessantesimo anniversario dell’innovativo Trattato di Roma. Ma, specialmente dopo il voto di Brexit del giugno scorso, è una Unione a rischio. Il terrorismo ci sta mostrando le limitazioni dell’accordo di Schengen. Stanno venendo fuori delle società parallele ostili nelle città e nelle periferie della Francia, del Belgio e altrove. L’ordine costituito è minacciato dall’ascesa di partiti populisti che si oppongono all’Ue e all’Euro, e che promuovono xenofobia e antisemitismo. L’Ucraina, Paese confinante a Est dell’Unione, è parzialmente occupata, così come lo è Cipro, Paese membro dell’Unione. La Turchia, Paese chiave nella sfida della migrazione europea, sta precipitando verso l’autoritarismo. La Grecia, la Spagna, e altri Paesi dell’Ue hanno impressionanti livelli di disoccupazione giovanile. Ma invece di concentrarsi su una o su tutte queste questioni, il Quai d’Orsay ha scelto di organizzare l’ennesimo incontro internazionale per risolvere un conflitto che, come tutti sanno a priori, potrà essere risolto solamente dalle parti in causa, indipendentemente dal numero di Paesi che saranno presenti alla sua conferenza di Parigi.

Vorrei aggiungere che, se la Francia ha deciso comunque che in questo momento è necessaria una conferenza internazionale di qualche tipo, perché non organizzarne una sulla Siria, che è la più grande tragedia di questo secolo, e che è un Paese che la Francia ha sostenuto di conoscere meglio degli altri sin dai tempi dell’accordo Sykes-Picot che nel 1916 disegnò i confini del Medio Oriente?

Perché non organizzarne una sulla Libia, dato che la decisione francese del 2011 di prender parte alla cacciata di Muammar Gheddafi ha raggiunto sì il suo obiettivo immediato, ma ha lasciato un Paese a brandelli, creando un terreno fertile per il jihadismo e un grave pericolo per gli interessi europei? O perché non organizzarne una sui curdi, un popolo mediorientale con tutti gli elementi propri di una Nazione - e uno dei nostri alleati più fidati - ma ai quali continua a venir negato il diritto all’autodeterminazione a causa degli interessi geopolitici delle grandi potenze?

Oppure, perché non organizzare un summit sull’ingerenza della Russia negli affari dell’Unione europea, tra cui troviamo il supporto finanziario ai partiti estremisti anti-Ue, la creazione di falsi gruppi ambientalisti che si oppongono a qualunque progetto energetico che escluda la Russia, e la faziosa manipolazione dei media?

E invece, la conferenza che aprirà le porte domani a Parigi ha come tema il conflitto israelo-palestinese, malgrado il fatto che una delle due parti in causa - Israele - vi si oppone; malgrado il fatto che gli Stati Uniti, fondamentali in qualunque passo avanti sul tema, inaugureranno una nuova amministrazione (e una nuova politica) esattamente cinque giorni dopo; e malgrado il fatto che la Francia, va detto, non è vista esattamente come un giudice imparziale.

Volete sapere perché? Ebbene, malgrado i buoni rapporti bilaterali tra Parigi e Gerusalemme in alcuni campi, quando si tratta dell’arena internazionale, la Francia è troppo spesso schierata dall’altra parte. È successo recentemente durante il voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla Risoluzione 2334, così come è successo all’assemblea dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità del maggio scorso, dove la Francia si è espressa a favore di una bizzarra dichiarazione in cui si addita Israele quale unico Paese al mondo accusato di minare “la salute mentale, fisica e ambientale”, ed è successo all’Unesco nell’aprile scorso, quando la Francia non ha saputo far di meglio che astenersi sulla Risoluzione che ha negato qualunque legame ebraico (e cristiano) con i luoghi santi di Gerusalemme.

Se lo scopo è di aumentare le possibilità di un accordo a due Stati, è ora di guardare ai fatti.

1): Dal rapporto della Commissione Peel del 1937 sino ad oggi, i palestinesi e i loro alleati hanno rifiutato qualunque compromesso che era stato offerto al tavolo dei negoziati in modo da arrivare ad una soluzione fattibile.

2): Ogni tentativo di evitare i negoziati faccia a faccia non fa altro che convincere i palestinesi che potranno ottenere tutto quello che vogliono senza affrontare Israele in colloqui diretti, e accettando i compromessi inevitabili che scaturirebbero da un qualunque accordo.

3): L’incitamento alla violenza da parte palestinese non è una questione di poco conto che va aggiunta alle Risoluzioni dell’Onu o ai discorsi diplomatici all’ultimo momento, ma è la questione centrale del problema. Fino a quando i palestinesi continueranno a glorificare gli attentati suicidi ed il “martirio”, continuando a negare la legittimità del popolo ebraico in Israele, non ci sarà soluzione.

4): Il ruolo delle Nazioni di buona volontà dovrebbe essere quello di mandare un messaggio chiaro ai palestinesi: che ogni loro capriccio, non importa quanto possa essere controproducente alla causa della pace, non verrà più assecondato. La comunità internazionale ha ripreso Israele chiaramente e in varie occasioni; la controparte, ahimè, non così tanto.

Talleyrand, leggendario ministro degli Esteri francese che sedeva un tempo al suo posto, disse: “L’arte dello statista è di prevedere l’inevitabile e accelerarne l’arrivo”.

L’inevitabile non dovrebbe essere l’ennesimo vicolo cieco degli incontri internazionali, ma un dialogo faccia a faccia tra israeliani e palestinesi. Quando tutti si accorgeranno di questa chiara realtà, forse un accordo a due Stati sarà più vicino.

(*) Direttore esecutivo dell’American Jewish Committee (Ajc)

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:09