In Donald we trust

Arturo Diaconale, nell’articolo pubblicato ieri dal titolo: “Il fenomeno dei vedovi di Obama”, pone una questione molto seria. Perché in tanti in Italia hanno fatto un tifo sfegatato per l’ex-presidente americano e per la sua mancata erede alla Casa Bianca? Ha ragione il direttore: per ottenere una risposta soddisfacente occorrerebbe indagare il fenomeno con gli strumenti della psichiatria giacché, stando al normale buon senso, nulla giustificherebbe un simile entusiasmo per un leader politico globale che ha sbagliato tutto negli anni del suo mandato.

Se il metro della valutazione dell’interesse nazionale può avere ancora un senso dovremmo essere noi italiani più di chiunque altro a dolerci dei danni provocati da mister Obama. Prendiamo il caso della politica statunitense nello scacchiere mediterraneo. Come definirla se non disastrosa? Fino al 2008 non è che fossimo in un paradiso terrestre, tuttavia un ragionevole equilibrio internazionale fondato anche sugli “impresentabili” satrapi dei governi nord-africani e del Medio Oriente garantiva un sufficiente grado di sicurezza per gli interessi strategici e commerciali del nostro Paese nell’area. Poi è arrivato lui a rimescolare le carte e da quel momento il Mediterraneo è diventato insieme una polveriera e un cimitero. Di cosa dovremmo gioire? Della “maledetta primavera” araba? Se stiamo a combattere contro il fenomeno, all’apparenza inarrestabile, del flusso incontrollato di migranti clandestini che arrivano dalle coste franche della Libia dobbiamo dire grazie al duo Barack Obama-Hillary Clinton. Se l’Egitto non è diventato per l’estremismo islamico la rampa di lancio puntata contro l’Italia lo dobbiamo soltanto a un provvidenziale colpo di mano che ha scalzato dal potere un esponente dei Fratelli Musulmani sostituendolo sì con un dittatore, ma almeno un dittatore che sa stare al suo posto e non minaccia di essere una mina vagante.

Parliamo degli aspetti commerciali. Il Governo Berlusconi aveva pienamente recuperato Gheddafi alla causa degli interessi italiani. La tanto vituperata visita a Roma del 29 agosto 2010 del padre della Giamahiria aveva portato, oltre a un convoglio di hostess, amazzoni e testi coranici, una valigia zeppa di contratti per le imprese italiane che avrebbero dovuto mettere in piedi la nuova Libia. Con la sua defenestrazione, voluta da Nicolas Sarkozy e sostenuta senza riserve dall’amministrazione americana, è andato tutto in fumo. Oggi la Libia è macerie e caos. E ciò accade fuori l’uscio di casa nostra. Dovremmo pure per questo ringraziare il signor Obama? Per non parlare della crisi con la Federazione Russa. Si è fatto di tutto e di più per portare l’Europa sull’orlo del conflitto con Mosca. A noi italiani le cose con “l’odiato nemico” non andavano poi tanto male: crescita della bilancia commerciale e una valanga di partenariati pronti a scattare per implementare le relazioni commerciali tra i due Paesi. Ma sono arrivate le sanzioni e l’obbligo per l’Italia, nel frattempo consegnata a governi fantoccio, di rientrare nei ranghi dell’Alleanza.

Morale della favola: abbiamo perso quote di mercato che sarà difficile recuperare nel futuro. Ancora una volta: grazie Obama! E grazie anche per quella pressione indebita esercitata sull’Unione europea perché Bruxelles stoppasse i progetti italo-russi di costruzione del gasdotto South Stream. L’amministrazione Obama ha usato il governo italiano come un tappetino: all’occorrenza se n’è servito e poi l’ha mollato. Eppure c’è in giro in Italia chi dice: “Che grande è stato Obama”. Il lettino dello psicanalista! Ecco che ci vuole per questi malati di ideologismo fazioso per i quali l’amministrazione uscente di Washington è stata un bene a prescindere mentre il neo-eletto Donald Trump sarebbe per verità di fede un pazzo votato al male. E se invece la pensassimo come Erasmo da Rotterdam per il quale: “Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia”?

Com’è che diceva Obama? “Yes, we can”. Rispondiamo volentieri a lui ed ai suoi orfani di tutte le sponde: “In Donald, we trust!”. Perché peggio di com’è andata non potrebbe andare.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:42