La spirale di morte della Francia

2 febbraio 2017: una “no-go zone” nella banlieu est di Parigi. Una pattuglia della polizia sente delle urla e decide di intervenire. Un ragazzo insulta gli agenti, che decidono di arrestarlo. Il giovane li colpisce e inizia una colluttazione. Il ragazzo accusa un poliziotto di averlo violentato con un manganello. Una veloce indagine della polizia stabilisce che il giovane non è stato stuprato. Ma è troppo tardi. È iniziato un processo tossico. Senza aspettare altre prove, il ministro dell’Interno francese afferma che i poliziotti si sono “comportati male”. E aggiunge che “la cattiva condotta della polizia deve essere condannata”. Il presidente francese François Hollande si reca all’ospedale per esprimere il suo sostegno al giovane e dice che si è comportato “in modo dignitoso e responsabile”. Il giorno dopo, viene organizzata una manifestazione di protesta contro la polizia. La marcia si trasforma in una rivolta. I disordini andranno avanti per più di due settimane e riguarderanno più di venti città in tutta la Francia, raggiungendo anche il cuore di Parigi. Decine di auto saranno incendiate. Negozi e ristoranti saccheggiati. Edifici pubblici e stazioni di polizia attaccati. Le forze dell’ordine hanno ricevuto ordine di non intervenire. E così hanno fatto. Sono stati effettuati pochi arresti. La calma è tornata lentamente, ma le rivolte possono ricominciare. La Francia è un Paese alla mercé di disordini su larga scala. Possono esplodere in qualunque momento. I leader francesi lo sanno e trovano rifugio nella codardia.

Ciò che è accaduto è il risultato di un processo deleterio innescato cinquant’anni fa. Negli anni Sessanta, dopo la guerra d’Algeria, il presidente Charles de Gaulle orientò il Paese in direzione dello sviluppo di relazioni più strette con i Paesi arabi e musulmani. I flussi di “lavoratori stranieri” dall’Algeria, dal Marocco e dalla Tunisia, che erano iniziati qualche anno prima, aumentarono notevolmente. Gli immigrati non furono incoraggiati a integrarsi. Tutti pensavano che sarebbero tornati a casa al termine dei loro contratti di lavoro. Andarono a vivere nelle periferie dei grandi centri urbani. L’economia era dinamica e creava molti posti di lavoro. Sembrava che non ci sarebbero stati problemi. Vent’anni dopo, emersero chiaramente delle gravi difficoltà. Gli immigrati erano ormai milioni, arrivavano dall’Africa subsahariana e dai Paesi arabi. Si erano formati quartieri popolati solo da arabi e da africani. L’economia era rallentata e c’era un elevato livello di disoccupazione. Ma gli immigrati disoccupati non ritornarono nei loro Paesi d’origine, facendo piuttosto affidamento sui sussidi sociali. L’integrazione era inesistente. Anche se molti dei nuovi arrivati erano diventati cittadini francesi, spesso nutrivano risentimento nei confronti della Francia e dell’Occidente. I sobillatori politici iniziarono a insegnare loro a detestare la civiltà occidentale. Cominciarono a formarsi bande violente di giovani arabi e africani. Gli scontri fra le bande e la polizia erano diffusi. Spesso, quando un membro di una gang rimaneva ferito, i sobillatori politici ne approfittavano per incitare a ulteriore violenza. La situazione era difficile da controllare. Ma nulla è stato fatto per migliorare le cose. Anzi è successo esattamente il contrario. Nel 1984, alcuni militanti trotzkisti crearono un movimento chiamato “Sos Racisme”, che cominciò a definire ogni critica dell’immigrazione come “razzista”. I principali partiti di sinistra appoggiarono Sos Racisme. Essi sembravano pensare che accusando i loro avversari politici di razzismo avrebbero potuto attirare i voti dei “nuovi cittadini”. La presenza di agitatori islamisti, al fianco di agitatori politici nei quartieri arabi e africani, e la comparsa di discorsi islamici antioccidentali, allarmarono molti osservatori. Sos Racisme bollava come “razzisti islamofobi” coloro che parlavano di pericolo islamico.

Nel 1990, fu approvata una legge proposta da Jean-Claude Gayssot, un deputato comunista. La legge stabiliva che “ogni tipo di discriminazione fondata sull’appartenenza a un’etnia, nazione, razza o religione è proibita”. Da allora, questa legge è stata utilizzata per criminalizzare ogni critica della delinquenza araba e africana, ogni questione sull’immigrazione proveniente dal mondo musulmano, ogni analisi negativa dell’Islam. Molti scrittori sono stati condannati al pagamento di un’ammenda e la maggior parte dei libri “politicamente corretti” su questo argomento sono scomparsi dalle librerie. Il governo francese ha chiesto ai media di rispettare la “legge Gayssot” e che i libri di testo di storia fossero riscritti per includere capitoli sui crimini commessi dall’Occidente contro i musulmani e sul “contributo essenziale” reso dall’Islam all’umanità.

Nel 2002, la situazione nel Paese divenne drammatica. I quartieri arabi e africani erano diventati delle “no-go zones”. L’Islam radicale si era diffuso ed erano cominciati gli attentati islamisti. Ogni settimana, decine e decine di auto erano incendiate. L’antisemitismo musulmano era in rapida crescita e determinò un aumento degli attacchi contro gli ebrei. Sos Racisme e altre organizzazioni antirazziste non si espressero in merito all’antisemitismo musulmano. Non volendo essere accusate di “razzismo islamofobo”, anche le organizzazioni preposte a combattere l’antisemitismo rimasero in silenzio. Sempre nel 2002, fu pubblicato un libro, “Les territoires perdus de la République”, scritto da Georges Bensoussan (sotto lo pseudonimo di Emmanuel Brenner), che descriveva accuratamente la realtà. Il volume parlava dell’odio radicale verso l’Occidente nutrito dai giovani figli di immigrati e dell’odio verso gli ebrei da parte dei giovani musulmani. Il saggio sottolineava il fatto che le “no-go zones” erano a un passo dalla secessione e non facevano più parte del territorio francese. I media mainstream ignorarono il libro.

Tre anni dopo, nell’ottobre del 2005, in tutto il Paese scoppiarono una serie di tumulti. Più di 9mila auto furono date alle fiamme. Centinaia di negozi, supermercati e centri commerciali vennero saccheggiati e distrutti. Decine e decine di poliziotti rimasero gravemente feriti. La tempesta si fermò quando il governo concluse un accordo con le associazioni musulmane per riportare la calma. Il potere era passato di mano. Da allora, lo Stato mantiene a stento l’ordine pubblico in Francia.

Un altro libro, “Une France soumise”, è stato di recente pubblicato dall’uomo che aveva scritto “Les territoires perdus de la République” quindici anni prima, lo storico Georges Bensoussan. Oggi, la stessa Repubblica francese è un territorio perduto. Le “no-go zones” non sono più territorio francese. L’Islam radicale e l’odio per l’Occidente regnano in seno alle popolazioni musulmane e più in generale in seno alle popolazioni di origine immigrata. L’antisemitismo musulmano rende la vita insopportabile agli ebrei che non hanno ancora lasciato la Francia e non possono permettersi di trasferirsi in quartieri dove gli ebrei non sono ancora minacciati: il 16esimo e il 17esimo arrondissement, la Beverly Hills di Parigi; o la città di Neuilly, un sobborgo (chic) parigino.

Ovunque, in Francia, i professori di liceo si recano al lavoro portando con sé una copia del Corano per assicurarsi che ciò che dicono non contraddica il testo sacro dell’Islam. Tutti i manuali di storia sono “islamicamente corretti”. Un terzo dei musulmani francesi dice di voler vivere secondo la legge islamica della sharia e non secondo le leggi francesi. Negli ospedali, i musulmani chiedono con insistenza di essere curati solo da medici musulmani e pretendono che le loro mogli vengano visitate da medici uomini. Quotidianamente si verificano attacchi contro gli agenti di polizia, che hanno l’ordine di non entrare nelle “no-go zones”. Non devono rispondere agli insulti e alle minacce. Devono fuggire qualora siano aggrediti. Talvolta, non hanno il tempo di farlo.

Nell’ottobre del 2016, due poliziotti sono stati bruciati vivi nella loro auto a Viry-Châtillon, a sud di Parigi. Nel gennaio scorso, tre agenti di polizia sono caduti in un’imboscata e accoltellati, a Bobigny, a est di Parigi. Il 2 febbraio, la polizia ha reagito. Quando un uomo è diventato violento, i poliziotti non sono fuggiti. Il governo francese non può che considerarli colpevoli, accusando un agente di aver violentato il suo aggressore. Il poliziotto non è colpevole di stupro, ma è colpevole di essere intervenuto. Il governo francese ha anche incriminato i suoi colleghi e li ha accusati di “violenza”. Ora andranno a processo. Il giovane che ha distrutto la vita di questi agenti non è accusato di niente. In tutte le “no-go zones” è diventato un eroe. Le grandi catene televisive gli hanno chiesto delle interviste. Il suo nome è Theodore o Theo. Adesivi con su scritto “Giustizia per Theo” sono comparsi ovunque. Striscioni con il suo nome sono stati agitati durante le manifestazioni di protesta. I facinorosi hanno gridato il suo nome insieme a quello di Allah. Qualche giornalista ha osato dire che Theo non è un eroe e che le “no-go zones” sono dei serbatoi di odio antioccidentale, antisemita e antifrancese pronto a esplodere. Ma questi giornalisti sono anche prudenti. Sanno che rischiano di essere perseguiti.

Georges Bensoussan, l’autore di origine marocchina di “Territoires perdus de la République” e “Une France soumise”, recentemente è stato messo sotto processo. Una denuncia è stata presentata contro di lui dal “Collectif contre l’Islamophobie en France” (Ccif), che lo ha chiamato in giudizio per aver detto: “Oggi, siamo in presenza di un popolo differente in seno alla nazione francese, che sta facendo regredire un certo numero di valori democratici che noi rispettiamo” e “questo antisemitismo viscerale, dimostrato da un sondaggio realizzato da Fondapol lo scorso anno, non può essere taciuto”. I giudici sono stati immediatamente incaricati dell’istruttoria. La sentenza è stata emessa ai primi di marzo. Bensoussan non è stato condannato. Il Ccif ha fatto appello. Bensoussan è un uomo della sinistra. È un membro di “JCall”, un movimento che critica “l’occupazione di Israele della Cisgiordania” e chiede “la creazione di uno Stato indipendente”. Ma queste posizioni non bastano più per proteggerlo. La Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo (Licra), un’organizzazione fondata nel 1927 per lottare contro l’antisemitismo, ha appoggiato il Ccif. Le organizzazioni che combattono l’antisemitismo in Francia sembrano essere aggrappate a futili fantasie pensando di rabbonire i loro persecutori. Non parlano mai di antisemitismo musulmano e si uniscono volentieri alla lotta contro “il razzismo islamofobo” contro autori ebrei come Georges Bensoussan.

Le elezioni presidenziali francesi si terranno ad aprile. Il Partito socialista ha scelto un candidato, Benoît Hamon, appoggiato dall’Uoif (l’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia), considerato il ramo francese dei Fratelli musulmani. Anche l’estrema sinistra e i comunisti avranno un candidato, Jean-Luc Mélenchon, un ardente ammiratore di Lenin, Hugo Chavez e Yasser Arafat, e un risoluto nemico di Israele. Hamon e Mélenchon probabilmente riceveranno circa il 15 per cento dei voti. Un terzo candidato della sinistra, Emmanuel Macron, è un ex membro del governo socialista francese sotto François Hollande. Per attirare gli elettori musulmani, Macron si è recato in Algeria e ha detto che la colonizzazione francese è stata “un crimine contro l’umanità”. Egli ha dichiarato più volte che la cultura francese non esiste e che la cultura occidentale non esiste più, ma ha aggiunto che la cultura musulmana araba deve avere il “suo posto” in Francia. Il candidato conservatore, François Fillon, promette di combattere l’Islam sunnita ma afferma di volere una “forte alleanza” tra la Francia, i mullah iraniani e Hezbollah. La sua reputazione è stata gravemente danneggiata da uno scandalo di “falsi impieghi”. Fillon ha attaccato la comunità ebraica francese, presumibilmente per assicurarsi i voti musulmani e ha detto che gli ebrei non rispettano “tutte le regole della Repubblica”. Ha anche asserito che Israele rappresenta una “minaccia per la pace mondiale”. Marine Le Pen, la candidata di estrema destra del Front National, potrebbe sembrare la più determinata a raddrizzare la Francia, ma il suo programma economico è marxista come quello di Hamon o Mélenchon. Anche la leader del Front National vuole attirare l’elettorato musulmano. Qualche mese fa la Le Pen si è recata al Cairo per incontrare il Grande Imam di al-Azhar. Come tutti gli altri partiti politici francesi, il Front National ha appoggiato le posizioni anti-israeliane dell’ex presidente americano Barack Obama così come la Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvata il 23 dicembre dello scorso anno. Marine Le Pen vincerà probabilmente il primo turno delle presidenziali, ma sarà quasi certamente sconfitta al secondo turno: tutti gli altri candidati si schiereranno con il candidato che lei si troverà ad affrontare, probabilmente Macron o Fillon (se quest’ultimo non rinuncerà alla corsa all’Eliseo). Marine Le Pen potrebbe pensare che fra cinque anni la situazione in Francia sarà anche peggio e che allora avrà la seria possibilità di essere eletta presidente.

Qualche mese fa in un libro di recente pubblicazione, “La guerre civile qui vient”, l’editorialista francese Ivan Rioufol ha scritto: “Il pericolo non è il Front National che è soltanto l’espressione della rabbia di un popolo abbandonato. Il pericolo è il legame sempre più stretto tra il sinistrismo e l’islamismo. Il pericolo va fermato”.

(*) Gatestone Institute

Traduzione a cura di Angelita La Spada

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:00