Trump si nutre degli stereotipi della sinistra

Si urla tutti i giorni contro un “Muslim Ban” che non esiste. Ci si indigna per un muro con il Messico che è stato costruito da Clinton ventitré anni fa. Si indaga su contatti fra l’amministrazione Trump e la Russia, per il sospetto di interferenze del Cremlino nelle elezioni americane, ma intanto il governo federale statunitense conferma le sanzioni e la linea di politica americana contro l’annessione russa della Crimea. Si ritiene che Trump sia il più illiberale e meno conservatore dei presidenti repubblicani, ma intanto avvia la sua politica economica tagliando tasse e regole più del suo predecessore Bush.

Lo scollamento fra la realtà dei fatti (cioè delle azioni dell’amministrazione Trump) e la narrazione dei fatti è diventato talmente evidente da essere notato anche dai non addetti ai lavori. Il caso del “Muslim Ban” è il più clamoroso, perché la narrazione sta iniziando a produrre anche conseguenze giudiziarie. Il decreto presidenziale poi soprannominato “Muslim Ban” riguarda 7 Paesi, poi ridotti a 6, a forte rischio terrorismo. Non riguarda i casi di carta verde o visti già concessi, che avranno sempre la possibilità di entrare negli Usa. Per specificare questo ultimo punto, l’amministrazione Trump ha emesso un secondo testo in cui era esplicitamente specificato nero su bianco che, chi è residente negli Usa o ha già il permesso di entrare, non può essere fermato alla frontiera. La lista dei 6 Paesi a rischio non è opera dell’amministrazione Trump, ma della precedente amministrazione Obama. Non c’è scritto da nessuna parte che un musulmano non possa entrare negli Usa perché è musulmano. Se i 6 Paesi in questione sono nella black list è perché sono a forte rischio terrorismo e sul loro territorio le ambasciate americane non possono lavorare, o addirittura sono assenti. Non perché sono Paesi a maggioranza musulmana. Il blocco dei nuovi visti da questi Paesi è comunque solo temporaneo. Nonostante tutto la campagna mediatica si rivolge contro un “Muslim Ban” e si urla e si strepita contro una discriminazione “religiosa”. Incredibile, da questo punto di vista, la sentenza del giudice Watson, delle Hawaii, che dichiara illegale il testo del decreto, non per quello che c’è scritto, ma per le intenzioni discriminatorie manifestate dal presidente. Un po’ come se dicesse: leggo nel pensiero di Trump. Un processo alle intenzioni in piena regola.

La stessa distanza fra le percezioni e la realtà si nota per la politica dell’amministrazione Trump nei riguardi del Messico e della lunga frontiera. Il muro c’è già. Il “bild the wall”, slogan fortunato (nefasto, per gli oppositori) di Trump è semmai un rafforzamento del confine in aree montuose in cui non è sufficientemente presidiato. “Mexico will pay” (il Messico pagherà per il muro) è un invito a responsabilizzare il Messico, che per troppo tempo ha chiuso entrambi gli occhi sull’emigrazione clandestina e il traffico di esseri umani. Al di là della retorica, la differenza con Obama è ben poca cosa: l’amministrazione Trump promette l’espulsione di 3 milioni di immigrati clandestini, quando Obama ne ha espulsi 2,5 milioni. I “santuari” (dove gli immigrati sono tollerati dalle amministrazioni locali) erano illegali anche al tempo di Obama, Trump si limita a una politica di minor tolleranza. Eppure Obama passa alla storia come presidente dell’accoglienza, mentre Trump come quello dell’esclusione. E viene boicottato dal mondo che conta, dagli stilisti ai registi, passando per i salotti buoni della nuova economia, perché “razzista”.

Trump e la Russia: se c’è una certezza è che le spie informatiche russe non hanno manipolato il voto. Su questo punto si sono espresse sia l’intelligence che l’Fbi. Quel che gli hacker russi hanno fatto è stato semmai di far filtrare informazioni segrete (ma reali) su Hillary Clinton e la Convention Democratica. Inutile ricordare quante notizie segrete su Trump (compreso il fuori onda in cui parlava delle donne) sono state fatte trapelare dal campo democratico, tramite spioni interni di varia provenienza. Non c’è stato, dunque, un voto dirottato, non una manipolazione del conteggio, dello spoglio o dei sistemi di elezione, ma un intervento, neppure troppo incisivo, nella campagna elettorale. Avvenuto, per altro, attraverso una “buca delle lettere”, Julian Assange, che fino al 2012 era usata spesso e volentieri dai democratici per screditare i repubblicani. Ma se c’è una prova tangibile che Trump non è un burattino di Putin, questa è la sua politica estera. Gli Usa, per bocca della nuova ambasciatrice all’Onu Nikki Haley (nominata da Trump), non riconoscono l’annessione russa della Crimea, condannano la guerriglia pro-russa in Ucraina orientale e confermano le sanzioni economiche. Gli Usa non hanno preso parte ai colloqui di pace di Astana, sulla Siria, promossi dalla Russia. Quanto alla Siria stessa, l’amministrazione Trump intende intervenire via terra nel settore di Raqqa, spedendo al fronte alcune batterie dei marine, una mossa che Mosca considera una violazione pesante dell’integrità territoriale siriana (e legalmente ha ragione). Infine, ma non da ultimo, Trump promette da sempre un riarmo, anche nel settore nucleare, provocando la forte protesta del Cremlino che teme una nuova corsa agli armamenti. Però, nella narrazione e di conseguenza anche nell’immaginario collettivo, Trump è il “presidente voluto da Putin”.

E non c’è solo la narrazione di sinistra, c’è anche quella della destra anti-Trump, che lo vede come il meno conservatore (il meno favorevole al libero mercato) fra tutti i possibili leader repubblicano. È certo che la retorica di Donald Trump sia anti-mercato, specie nel commercio internazionale. Ma è anche certo che ha inaugurato la sua politica economica con un taglio massiccio di regole. Ha (di fatto) abrogato il Dodd-Frank Act voluto da Barack Obama nel 2010 per punire la finanza speculativa. D’ora in avanti le banche subiranno meno controlli statali e saranno più libere di fare trading sui mercati finanziari anche con i depositi dei loro clienti. La deregulation, in genere, con Trump è diventata la regola: un decreto specificamente firmato dal nuovo presidente obbliga le agenzie governative a cancellare due norme per ogni nuova regola introdotta. È il piano di deregulation più ambizioso dai tempi di Ronald Reagan. Nonostante tutto, per certa narrativa di destra (e dunque anche di una sinistra che si riscopre singolarmente pro-mercato, solo in questo caso specifico) Trump è “statalista”.

Detto tutto ciò, è interessante notare come l’amministrazione in carica faccia poco o nulla per smentire questi luoghi comuni che la riguardano. Ma questo fa parte della strategia di Trump, che ha vinto le elezioni andando controvento, sfruttando la pubblicità negativa. Islamofobo? Benissimo. Tanti consensi in più in un momento in cui gli attentati dei radicali islamici fanno paura più di ogni altra cosa. Razzista? Perfetto, quel che ci vuole con un’opinione pubblica che si sposta sempre più a destra a causa della (non) gestione dell’immigrazione da parte della sinistra. Mi danno dell’amico di Vladimir Putin? Sono tutti consensi in più da una destra che si identifica in una Russia conservatrice, percepita (più nell’immaginario che nella realtà) come baluardo contro il laicismo e l’Islam. Statalista? Ma la gente vuole lo statalismo, specie dopo la crisi economica del 2008, che proprio gli intellettuali di sinistra continuano ad attribuire al “neoliberismo”. Trump sta ancora andando forte controvento. Si nutre dei luoghi comuni diffusi contro di lui. Forse la sinistra non se n’è ancora accorta.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:10