1967-2017: a 50 anni dalla Guerra dei Sei Giorni

C’è chi alza gli occhi al cielo appena sente nominare la Storia. Se poi si tratta del Medio Oriente, è un fuggi fuggi generale, per il pericolo di rimanere invischiati in un groviglio di diatribe e discussioni. Ma se non capiamo cosa è successo nel passato, è impossibile capire il presente – e il presente è di vitale importanza per la regione, e per il mondo. La guerra dei Sei Giorni scoppiò 50 anni fa. Mentre alcune guerre vengono pian piano dimenticate, questa guerra è importante oggi come allora. Sono ancora tante le questioni dell’epoca rimaste ancora irrisolte. Politici, diplomatici e giornalisti sono alle prese ancora oggi con le conseguenze di quella guerra, ma raramente ne considerano il contesto, quando lo conoscono. Eppure quando viene a mancare i contesto, alcuni elementi di vitale importanza sono completamente privi di significato.

Innanzitutto, nel giugno 1967 non esisteva uno Stato di Palestina. Non esisteva allora e mai era esistito. Esso fu una proposta dalle Nazioni Unite nel 1947, proposta rifiutata dal mondo arabo perché avrebbe voluto dire che al suo fianco sarebbe nato contemporaneamente uno Stato ebraico.

Secondo, la Cisgiordania e Gerusalemme Est erano in mani giordane. Violando solenni accordi, la Giordania vietò agli ebrei di accedere ai siti di Gerusalemme Est a loro più sacri. Non solo, dissacrarono e distrussero molti di quei luoghi. Allo stesso tempo, la striscia di Gaza era sotto controllo egiziano, e gli abitanti sottoposti ad un duro regime militare, mentre le alture del Golan, utilizzate abitualmente per bombardare dall’alto le comunità israeliane, appartenevano alla Siria.

Terzo, il mondo arabo avrebbe potuto in qualunque momento creare uno Stato palestinese in Cisgiordania, Gerusalemme Est e nella striscia di Gaza, ma non lo fece. Non era neanche in discussione. Ed i leader arabi, che oggi parlano del loro profondo attaccamento a Gerusalemme Est, non ci andavano praticamente mai. Era considerata una remota provincia araba.

Quarto, il confine del 1967 all’epoca del conflitto, di cui si parla tanto in questi giorni, non era altro che una linea di armistizio fissata nel 1949 - nota come Linea Verde – dopo che cinque eserciti arabi attaccarono il nascituro Stato di Israele nel 1948 allo scopo di annientarlo, fallendo nel tentativo. Furono tracciate delle linee del cessate il fuoco, ma non erano affatto confini formali. Non potevano esserlo; il mondo arabo, anche nella sconfitta, rifiutava di ammettere il diritto all’esistenza di Israele.

Quinto, l’Olp, che era favorevole alla guerra, era stata creata nel 1964, tre anni prima dello scoppio del conflitto. È importante ricordarlo, perché fu creata proprio allo scopo di distruggere Israele. Difatti, nel 1964 gli unici “insediamenti” esistenti erano Israele stessa.

Sesto, nelle settimane precedenti la Guerra dei Sei Giorni, i leader egiziani e siriani dichiararono più volte che la guerra stava per scoppiare e che lo scopo era cancellare Israele dalla cartina geografica. Non c’erano dubbi in proposito. A ventidue anni dall’Olocausto, un altro nemico affermava la propria volontà di sterminare gli ebrei. È tutto ben documentato.

Ed è documentato anche il fatto che Israele, nei giorni prima della guerra, aprì un canale di comunicazioni con la Giordania tramite le Nazioni Unite e gli Stati Uniti, esortandola a rimanere fuori del conflitto imminente. Re Hussein di Giordania ignorò la richiesta israeliana, scegliendo di legare il proprio destino alla Siria e all’Egitto. Le sue forze armate vennero sconfitte da Israele, e di conseguenza la Giordania perdette il controllo della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Re Hussein confessò in seguito che l’entrata in guerra fu un grave errore.

Settimo, il Presidente egiziano Gamal Abdel Nasser chiese il ritiro dall’area delle forze di pace dell’Onu, presenti nell’area sin dal decennio precedente allo scopo di prevenire conflitti. Le Nazioni Unite, vergognosamente e senza neanche la cortesia formale di consultare Israele, ubbidirono. Venne a mancare così un cuscinetto tra lo schieramento degli eserciti arabi e le forze israeliane, in un paese grande un cinquantesimo – il due per cento – dell’Egitto e largo appena 15 chilometri nel suo punto più largo.

Ottavo, l’Egitto bloccò il transito delle navi mercantili israeliane nel Mar Rosso, unico accesso marittimo di Israele per il commercio con l’Asia e l’Africa. Giustamente, Gerusalemme considerò questo gesto un atto di guerra. Gli Stati Uniti ed altri Paesi dissero di volersi unire per forzare il blocco, ma purtroppo alla fine non se ne fece niente.

Nono, la Francia, che era stata il principale fornitore di armi ad Israele, annunciò appena prima dello scoppio del conflitto di giugno il divieto di vendita di armamenti, mettendo Israele in una potenziale situazione di grave pericolo se la guerra si fosse protratta a lungo. Fu solo nell’anno successivo che gli Stati Uniti si fecero avanti per riempire il vuoto lasciato dai francesi, fornendo armamenti vitali ad Israele.

E per finire, dopo aver vinto questa guerra per la propria esistenza, Israele sperò che i territori appena conquistati dall’Egitto, dalla Giordania e dalla Siria, potessero formare la base di un accordo di pace in cambio di territori. Misero in moto una trattativa informale. Ma il 1 settembre 1967 arrivò la risposta ufficiale da Khartoum, dove era in corso il Summit dei Paesi arabi. L’ormai famosa dichiarazione fu: “No alla pace, no al riconoscimento, no alle trattative con Israele”.

A questi “no”, ne sarebbero poi seguiti altri. Nel 2003, l’Ambasciatore saudita presso gli Stati Uniti, citato dal The New Yorker disse a proposito: “Mi si spezzò il cuore quando (il leader dell’Olp) Arafat non accettò l’offerta (di due stati, proposta da Israele con il supporto degli Usa nel 2001). Dal 1948, ogni volta che c’è un’offerta sul tavolo noi diciamo di no. Poi, quando diciamo di si, l’offerta non è più sul tavolo, e ci troviamo di fronte un’offerta meno allettante. Non sarà arrivato forse il momento di dire finalmente sì?”

Oggi, c’è chi tenta di riscrivere la Storia.

Vogliono far credere al mondo che esisteva un tempo uno Stato palestinese. Non è mai esistito. Vogliono far credere al mondo che esisteva un confine ufficiale tra quello Stato ed Israele, mentre c’era invece solo una linea di armistizio tra Israele e la Cisgiordania e Gerusalemme Est, entrambe sotto controllo giordano. Vogliono far credere al mondo che la Guerra del 1967 fu un atto di guerra da parte israeliana. Fu, invece, un atto di autodifesa di fronte alle terrificanti minacce di annientamento dello Stato ebraico, al blocco navale degli Stretti di Tiran, al ritiro avvenuto da un giorno all’altro delle forze di pace dell’Onu, allo schieramento massiccio delle truppe egiziane e siriane. Tutte le guerre hanno le loro conseguenze, e questa non fu un’eccezione. Ma gli aggressori non si sono presi le proprie responsabilità di fronte agli atti che hanno istigato. Vogliono far credere al mondo che gli insediamenti israeliani seguiti al 1967 sono l’ostacolo principale alla pace.

E invece, la Guerra dei Sei Giorni è lì a dimostrare che il tema fondamentale è, ed è sempre stato, che i palestinesi e il mondo arabo devono decidere se vogliono accettare il diritto degli ebrei ad avere un proprio Stato. Se così è, allora qualunque ostacolo, per quanto possa sembrare insormontabile, avrà la sua soluzione. Se non è così, allora tutto può accadere. Vogliono anche far credere al mondo che il mondo arabo non ce l’ha con gli ebrei, ma solo con Israele, eppure hanno calpestato siti sacri al popolo ebraico, infischiandosene. In altre parole, quando si tratta del conflitto arabo-israeliano, decidere di ignorare il passato come se questo fosse qualcosa di irritante, o addirittura di irrilevante, non serve a niente.

Possiamo sperare in un futuro migliore? Sì, di certo. I trattati di pace siglati da Israele con l’Egitto nel 1979 e con la Giordania nel 1994 ne sono la riprova. Ma allo stesso tempo, le lezioni della Guerra dei Sei Giorni dimostrano quanto il percorso possa essere duro e tortuoso, e ci ricordano che la Storia è importante, davvero.

(*) David Harris è il Ceo (direttore esecutivo) dell’Ajc - American Jewish Committee

Aggiornato il 01 giugno 2017 alle ore 12:22