Il pericolo paradossale delle buone relazioni tra Usa e Israele

martedì 20 giugno 2017


Nonostante il mancato trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, il palese affetto dimostrato dal presidente Trump per Israele durante la sua recente visita ha comprensibilmente rallegrato gli israeliani dopo otto anni di fredde relazioni con il presidente Obama. Purtroppo, nulla è semplice nel conflitto arabo-israeliano: uno sguardo agli avvenimenti passati lascia pensare che paradossalmente Israele dia il massimo quando sussiste un livello di tensione con Washington, come quello creato da Obama.

Per spiegare questo paradosso, occorre iniziare col dire che dal 1973 tutte le amministrazioni americane, indipendentemente dal partito al potere alla Casa Bianca, sono convinte del fatto che gli arabi siano pronti a fare la pace con Israele. Questo problema si è particolarmente accentuato dall’istituzione dell’Autorità palestinese (Ap) nel 1994. I presidenti americani ignorano costantemente la natura rivoluzionaria dell’Ap. In questo spirito, dopo un incontro con il suo leader Mahmoud Abbas, Trump ha definito quest’ultimo un “partner strategico” per Israele e “pronto ad aprire il dialogo per la pace”.

I leader americani spesso insistono sul fatto che se Gerusalemme desse ancora più denaro, terre e riconoscimenti, allora l’Autorità palestinese sarebbe ispirata a fare la pace. Di fronte a una pressoché illimitata falsità, ostilità, bellicosità e violenza, questa commovente fiducia nei buoni rapporti di vicinato da parte dei palestinesi può spiegarsi solo con la psicologia. L’ex vice consigliere alla sicurezza nazionale Elliott Abrams la paragona opportunamente a Campanellino di Peter Pan: “Se ci credi, batti le mani”.

Quando i governi israeliani condividono questa idea fantasiosa, come è accaduto con i premier del Partito laburista e di Kadima, i rapporti tra Stati Uniti e Israele migliorano: si pensi ai legami notoriamente calorosi tra Bill Clinton e Yitzhak Rabin. Ma quando gli israeliani contrastano queste pie illusioni, come fa il premier Benjamin Netanyahu, nascono le tensioni. Washington spinge per ulteriori concessioni e Gerusalemme si oppone. I presidenti americani allora si trovano di fronte a una scelta: lamentarsi e criticare o accettare e incoraggiare. Obama ha optato per una condotta capricciosa, come dimostrato dalla scelta di andare a cenare con la sua famiglia nel 2010, mentre Netanyahu aspettava nella Sala Roosevelt.

Come afferma da decenni il diplomatico americano Dennis Ross, la cooperazione di Israele si rafforza quando la Casa Bianca concentra l’attenzione sull’obiettivo di creare un clima di fiducia. Senza dubitare della sincerità dei sentimenti calorosi di Trump per Israele, il negoziatore che c’è in lui sembra intuitivamente comprendere che corteggiare gli israeliani costituisce la base per esercitare future pressioni. Durante il suo recente viaggio in Israele, Trump ha colto ogni occasione per mostrare tutto l’affetto che nutre per Gerusalemme, gli ebrei, il sionismo e Israele.

“Gerusalemme è una città sacra, con una bellezza, uno splendore ed un patrimonio, come nessun altro posto al mondo”, egli ha osservato. “I legami tra il popolo ebraico e questa sacra terra sono antichi ed eterni”, un punto che ha illustrato con la sua stessa esperienza: “Ieri, visitando il Muro Occidentale ho esultato nel vedere in questo monumento la presenza di Dio e la perseveranza dell’uomo”.

“Israele è un testamento dello spirito indistruttibile del popolo ebraico”, ha continuato. “Resto ammirato dalle conquiste del popolo ebraico e vi prometto che la mia amministrazione sarà sempre al fianco di Israele. (...) Dio benedica lo Stato di Israele”.

Gli israeliani hanno corrisposto appieno questo affetto. David Horovitz, direttore di Times of Israel, parla a nome di molti: “Dicendo semplicemente che lo ama e sta dalla sua parte, Trump ha conquistato il cuore di Israele, un paese che è così incessantemente criticato. (...) Trump e Netanyahu non sono d’accordo sulle credenziali di pacificatori dei palestinesi. Trump non ha spostato l’ambasciata. Ma il presidente ha sommerso di elogi Israele e ha segnato la storia recandosi al Muro Occidentale. Per il momento, è più che sufficiente”.

Questa reazione emotiva offre a Trump l’opportunità di chiedere al governo israeliano di fidarsi di Abbas e di fare nuove concessioni unilaterali, un processo che sembra già iniziato con le pressioni esercitate per cedere territori in Cisgiordania. Vista la loro amicizia, come può Netanyahu rifiutare le richieste di Trump?

E questo ci ricorda una costante: gli israeliani e i loro sostenitori tendono a prestare maggiore attenzione alla disposizione d’animo e al simbolismo piuttosto che alle politiche. “A differenza di altri legami diplomatici, che ruotano intorno a interessi nazionali come gli interessi commerciali e in materia di sicurezza, i rapporti tra Stati Uniti e Israele hanno una base affettiva”, scrivevo nel 1992. “I sentimenti, e non una fredda valutazione degli interessi, guidano ogni loro aspetto. Il tono, lo stile, la disposizione d’animo e la sensibilità spesso sono più importanti dei fatti concreti”.

Purtroppo, le buone relazioni inducono Gerusalemme ad accettare gli errori di valutazione di Washington. È questo il pericolo delle buone relazioni tra gli Stati Uniti e Israele e il sollievo che procurano quelle cattive. È meglio per Israele essere punito da una brutta risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Uniti piuttosto che cedere più territori a dei criminali genocidi. Se le relazioni tra Stati Uniti e Israele sono fredde o calde a seconda dei venti politici, le concessioni israeliane ai palestinesi sono immutabilmente degli errori che incoraggiano l’irredentismo, costano vite umane, prolungano il conflitto e ostacolano gli interessi americani. Ed ecco la mia conclusione contro-intuitiva: le relazioni fredde e distanti sono migliori per la sicurezza israeliana – e di conseguenza – per la sicurezza americana.

(*) Traduzione a cura di Angelita La Spada


di Daniel Pipes